Il crollo del balcone di una delle case del progetto C.A.S.E. a Cese di Preturo qualche giorno fa, è l’immagine più evocativa dello stato di ricostruzione e dei modelli di resilienza post emergenza posti in essere, dopo che il terremoto del 06 Aprile del 2009 mise in ginocchio L’Aquila e le sue frazioni.
Il crollo di quel balcone rappresenta la sconfitta e la mediocrità con la quale spesso si affronta il discorso ricostruzione in Italia: la velocità nella ricostruzione non sempre è sinonimo di adeguatezza, ma ancora di più bisogna ricordare o sapere che le case del progetto C.A.S.E. e New Town dovrebbero essere una soluzione abitativa provvisoria quanto dignitosa, in attesa della ricostruzione vera e propria.
Ci sono stata in quelle case, nel 2010: quattro anni fa. E non con gli occhi di un curioso o di un “turista dei disastri” come purtroppo sempre più spesso (ricordiamo il caso della Concordia), la cronaca ci riporta. Ci sono stata per “studiare”, per cercare di capire quali effetti e quali soluzioni resilienti di risposta siano possibili dopo un evento di simili dimensioni, analizzando le relazioni sociali, di potere politico ed economico, che vengono messe a nudo subito dopo una tragedia. Forse è proprio questo che fa più paura dei disastri in Italia: non tanto le conseguenze drammatiche in termini di vite umane distrutte, danni urbani, infrastrutturali, economici e ambientali, quanto lo disvelarsi di tutte le attività illegali, sotterrane e parallele alle azioni di governo.
Sono stata proprio in quelle C.A.S.E. e ho potuto vedere quasi due mondi distinti, collaterali ma non intrecciati.
Ho visto i quartieri più piccoli, con le case basse e in generale un rimando ad una visione borghese di casa media italiana: anche qui ho visto infiltrazioni d’acqua, quadri elettrici non finiti e un ammasso di carte con la richiesta di interventi di manutenzione – nel 2010.
Poi ho visto le piattaforme delle New Town e lì ho avuto delle difficoltà: nulla da dire sul fatto che siano costruite antisismiche (…) non è il mio lavoro un’analisi di questo tipo, però posso affermare, che dal punto di vista sociale esprimono un senso di annichilimento totale: ci sono spazi stretti e bui come corridoi e la struttura interna delle case è pensata per favorire una con-fusione di ambienti, che rimandano al senso profondo di precarietà e debole equilibrio dell’intera situazione.
E’ molto strano quello che è successo: ci voleva un balcone crollato, per farci ricordare che esiste una “questione terremoti” in Italia, che c’è bisogno di nuove misure di prevenzione e di intervento nel post emergenza, che considerino anche gli aspetti sociali, le dinamiche collettive tralasciando gli psicologismi, ma pensando alla comunità.
A questo proposito, una volta stavo facendo lezione a un gruppo di esperti di Protezione civile e ho usato il termine comunità associato alla riduzione dei disastri, mi è stato subito fatto notare che una comunità in Italia non esiste.
E’ triste pensarlo, ma ancora di più viverlo. Perché quello che ho percepito e ciò di cui ho avuto esperienza a L’Aquila è che in effetti una comunità non esiste: esiste chi ce l’ha fatta, una folla di sopravvissuti abbandonati a loro stessi e poi chi non ce l’ha fatta che ha forse come unico ma importante scopo, quello di ricordare a tutti noi, che bisogna cambiare la situazione.
Ma come? Innanzitutto pensando seriamente a delle politiche che mirino alla riduzione dei disastri, alla conoscenza del proprio territorio, delle fonti di rischio e di vulnerabilità e delle possibilità di prevenzione e dei comportamenti in emergenza.
E’ il caso di ripensare a termini come “disaster policy” e non perché siamo appassionati di internazionalizzazione e lingua inglese, ma per il concetto al quale rimandano: una responsabilità istituzionale e sociale condivisa fra diverse agenzie coordinate tra loro, per mirate azioni di prevenzione e di risposta ad una eventuale emergenza.
Non è la soluzione per tutto, ma un primo passo verso una presa di coscienza, che i rischi esistono e che sono più localizzati di quanto si pensi.
Questo balcone è quindi un’immagine di “finta resilienza”, di una risposta all’emergenza che si è voluta dare in fretta, con criteri di selezione non sempre chiari e con l’incognita di chi avrebbe risposto alle future problematiche sul lungo periodo. Perché è proprio questo che manca, insieme a quello che si è scritto prima: un pensiero sul lungo periodo delle azioni da intraprendere e delle responsabilità da assumersi.
Poi, come sempre, arriva quasi per una funzione osmotica di riequilibrio, la notizia che Eni finanzierà il restauro della Basilica di Collemaggio a L’Aquila. Provo stridore nel pensare a questo: da un lato è un bene da tutelare e da preservare per la memoria sociale di una città distrutta, per creare quel collante storico intergenerazionale che è cemento o dovrebbe esserlo di una comunità, ma dall’altro penso all’uomo qualunque, all’ordinary man anglosassone, rientrare nella sua casa, una delle New Town e chiedersi se è il caso di uscire sul balcone o forse sia meglio aspettare domani.