Il commento che segue si basa sulle interviste raccolte durante la missione di studio in Iraq svolta tra l’agosto e il settembre 2003. Partita da Amman per Baghdad, la missione si è concentrata tra le città di Erbil, Kirkuk e Sulaimani, permettendo ampi movimenti nell’area controllata dal Partito dell’Unione Kurda (PUK) fino ai confini con l’Iran. Tra le numerose interviste quelle più significative rispetto al tema qui trattato e a cui farò ampio riferimento nel seguito, sono state raccolte in colloqui privati con Barham Salih primo ministro del PUK; Narmin Othman, ex ministro dell’istruzione; Sherko Bekas, ex ministro della cultura e noto poeta; Hikmat Mohammad Karim “Baxtiar”, responsabile dell’unione sindacale kurda; Rizgar Ali, responsabile del PUK a Kirkuk. Ulteriori informazioni sono state raccolte durante una missione in Iran nel gennaio 2004, presso l’Institute for Political International Studies e il Centre for Strategic Research.
Il Kurdistan Iraqeno: la terra dei Medi dove, sull’alto e medio corso del Tigri e dell’Eufrate, la Bibbia collocava l’Eden, il paradiso terrestre. In qualche modo il Kurdistan è la culla della civiltà, situata nella lunga striscia che corre al confine fra Turchia, Iran, Iraq e Siria: i quattro stati che nel 1923 si videro assegnare dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale altrettante frazioni dell’unità territoriale, linguistica e storico-culturale kurda. Da allora, esclusa l’esperienza della Repubblica di Mahabad (1946) nel Kurdistan iraniano, fino al 1992, cioè fino a dopo la Prima Guerra del Golfo, in Kurdistan non sono mai state possibili iniziative legali volte a dare autonomia e rappresentazione politica e statuale alla popolazione kurda. Il 19 maggio 1992, dunque, si svolsero elezioni a suffragio universale nell’area autonoma del Kurdistan iraqeno. Vi parteciparono tutti i gruppi politici del Fronte del Kurdistan iraqeno, con lo scopo di nominare il Parlamento della Regione Autonoma. PDK (Partito Democratico del Kurdistan) e PUK (Unione Patriottica del Kurdistan), i partiti principali, ottennero rispettivamente il 45% e il 43,6% dei voti, i partiti minori non raggiunsero il quorum stabilito. Il Parlamento divise i seggi al 50% tra i due partiti. L’atmosfera di ricostruzione e pace che aveva regnato durante il processo elettorale cessò quasi subito, per collassare definitivamente con lo scoppio di nuovi scontri tra PDK e PUK nell’inverno 1993-94 e nel maggio 1994. La mediazione del governo francese promosse a Parigi alcuni incontri tra i rappresentanti di PDK e PUK[1]. Ma già all’indomani degli accordi gli scontri tra le avverse fazioni ripresero e proseguirono fino all’inizio dei colloqui di Ankara (1996), che si protrassero in diversi round fino al settembre 1997. Essi videro protagonisti Jalal Talabani, rappresentante del PUK appoggiato dall’Iran, e Massoud Barzani, rappresentante del PDK appoggiato dalla Turchia, e si concentrarono su questioni militari più che amministrative. L’Iraq, temendo una sempre maggiore presenza dell’esercito turco nel suo territorio, propose alle parti di organizzare colloqui di pace sotto la supervisione di Baghdad, ma anche questo tentativo fallì. Il 17 settembre 1998, dopo numerosi altri incontri tra una delegazione statunitense e i rappresentanti kurdi, insieme al Ministero degli Esteri turco, sono stati siglati a Washington gli ultimi accordi, firmati di pugno da Barzani e Talabani[2]. Di fatto il paese si è trovato diviso in due, con una duplice amministrazione statale basata a Mosul per il PDK e a Erbil per il PUK. E’ poi il precipitare degli eventi internazionali che sembra favorire un riavvicinamento tra le parti, infatti gli uomini del terrorismo internazionale di Al Qaeda “hanno cominciato a fare battaglie contro di noi, perché prima dell’attacco all’Afghanistan avevano deciso di pronunciare la Jihad contro il governo regionale del Kurdistan, cacciare via il PUK con l’aiuto di 6-7000 arabi e afghani provenienti, a piccoli gruppi, dall’Afghanistan e creare qui una grande forza e cacciare via le autorità kurde per fondare un emirato islamico in Kurdistan. Ma l’attacco Usa in Afghanistan, dopo l’11 settembre, ha sgretolato il loro programma” (Sarkout Hasan Jalal, responsabile dei servizi sicurezza di Sulaimani). In seguito il Governo Regionale Kurdo ha appoggiato l’intervento alleato in Iraq, garantendo una certa stabilità al fronte nord e, soprattutto, partecipando attivamente agli interventi con le truppe speciali americane che, tra febbraio e marzo 2003, hanno attaccato ed eliminato le basi di Ansar Al Islam collocate nella zona nord orientale dell’Iraq. Sicuramente, sia il contributo militare dei peshmerga kurdi sia dell’ “intelligence” locale non estranea alla più recente cattura di Saddam Hussein peserà sul piatto della negoziazione politica del futuro assetto del Kurdistan iraqeno che, in sintesi, ruota attorno a tre questioni: i rapporti tra i due partiti kurdi; l’inquadramento della autonomia nelle prospettive del nuovo stato iraqeno e i possibili ostacoli alla riunificazione derivanti da altri stati.
I rapporti tra PUK e PDK
“E’ come in Italia: i partiti politici sono rivali e competono per il potere. La differenza è che in Italia c’è un sistema parlamentare e giudiziario forte. …Ora noi dobbiamo imparare a risolvere questi conflitti e rivalità senza combattere, ma esprimendoci attraverso le urne elettorali, attraverso il giudizio di una magistratura, per mezzo della politica. Io penso, al di là delle differenze, che entrambi i partiti (PDK e PUK) hanno dimostrato di essere sufficientemente ragionevoli e responsabili per focalizzarsi ‘sul bersaglio grosso’, per lavorare insieme in Iraq, per lavorare insieme in ragione dei bisogni del popolo kurdo e della democrazia in Iraq.“ Cosi dice Barham Salih, Primo Ministro del PUK, mettendo a fuoco la questione della necessaria collaborazione tra i partiti kurdi. Di fatto la doppia e separata amministrazione PUK/PDK ha già avviato fattive forme di collaborazione sia all’interno della nuova coalizione di governo iraqena sia con l’informale costituirsi della città di Erbil a potenziale capitale di un Kurdistan riunificato, nella prospettiva di prossime elezioni politiche: “ora che Saddam è andato via, noi dobbiamo fare di più per il nostro popolo: ecco perché dobbiamo riunire le amministrazioni, organizzare presto le elezioni per il Parlamento come da voi. Insomma fare quanto dichiariamo! Io nutro speranza per la riunificazione delle amministrazioni e sto giusto scambiando indicazioni e suggerimenti con i miei colleghi del PDK, ho proprio la speranza che tale riunificazione si faccia” (Barham Salih). Si tratta di un obiettivo tutto interno alle dinamiche politiche kurde, ma sicuramente decisivo affinché il Kurdistan possa presentarsi come una regione democratica e, almeno internamente, pacifica: requisiti essenziali per poter aspirare all’autonomia della regione.
Il Kurdistan nel nuovo Iraq
Hikmat Mohammad Karim “Baxtiar”, responsabile dell’unione sindacale kurda, un uomo potente che potrebbe muovere qualche centinaio di migliaia di voti, esordisce chiarendo che “se l’Iraq diventerà un paese democratico e civile, senza dubbio il Kurdistan ne sarà una parte molto importante e contribuirà alla nascita di questa democrazia, sia in ambito economico che politico. Se però l’Iraq non diventasse un sistema democratico, ma, al contrario, favorisse l’ascesa al potere di un sistema fondamentalista, allora è molto probabile che il Kurdistan deciderà di separarsi dal resto del paese.” E’ la medesima linea di Barham Salih che propone il modello dell’autogoverno kurdo degli ultimi dieci anni come un riferimento allo sviluppo dell’Iraq, nel quadro del diritto di autodeterminazione che deve essere riconosciuto a tutti i popoli: “il popolo Kurdo, come ogni altro popolo, ha il diritto della propria autodeterminazione compreso il diritto di erigere uno Stato Kurdo. Questo è un diritto fondamentale, ma io sono in una posizione di responsabilità e spero di esercitare responsabilmente i miei compiti. I credo che i kurdi irakeni abbiano una opportunità di collaborare con gli iraqeni democratici, gli arabi democratici, i turcmeni democratici, gli assiri democratici, per sviluppare un sistema di governo valido per tutti e fondato sulla libertà. Per questo richiedo uno stato federale democratico per l’Iraq.” E con ancora più chiarezza il Primo Ministro descrive il solo futuro Iraq compatibile con un Kurdistan autonomo: un Iraq federale democratico, non fondamentalista e non pan-arabista: “se l’Iraq diventa una dittatura. Se l’Iraq diventa uno stato fondamentalista islamico. Se l’Iraq non diventa una democrazia federale in cui io, come kurdo, non posso proclamare la mia identità o non essere considerato un partner a pieni diritti di Baghdad….. Se queste condizioni non possono essere ottenute, se l’élite di Baghdad, l’élite araba, insiste nel mantenere lo statu quo del passato, dunque, nazionalismo arabo e un governo centralizzato, allora io non ho nulla a che fare con tale stato iraqeno. Allora io dirò che sono gli arabi a non voler vivere con me.” (Barham Salih). Dunque, la strada è aperta ma le condizioni poste sono tanto evidenti quanto non di sicura realizzazione. Infatti, Narmin Othman ex ministro dell’istruzione, il 22 dicembre 2003 ancora mi dice: “il tempo delle decisione su un Kurdistan indipendente o meno non è ancora arrivato, troppe cose stanno ancora cambiando in Iraq. In questo momento, comunque sono al lavoro intellettuali e personalità indipendenti per promuovere un referendum attraverso il quale si possa esprimere la scelta della gente”. Tra queste personalità spicca Sherko Bekas, il più noto poeta del Kurdistan, già ministro della cultura al suo rientro dopo l’esilio all’inizio degli anni Novanta. Egli sostiene che, malgrado la caduta di Saddam, il Kurdistan continua a vivere come in un incubo “perché noi non siamo arrivati ancora alla nostra autodeterminazione, ciò vuol dire che quell’incubo c’è ancora. Potremo dire che quell’incubo è finito soltanto quando vivremo indipendenti sulla nostra terra…La nostra salvezza sta solo nella nostra indipendenza. Non c’è nulla che ci leghi a questo Paese né con alcuno dei governi iraqeni, dalla monarchia alla repubblica, fino ai baathisti arrivati a sterminare i kurdi. Oltretutto l’Iraq di oggi è un caos, perciò se noi ci buttiamo dentro perderemo…Noi, un gruppo di intellettuali circa a giugno del 2003 abbiamo pensato un grande progetto e lo stiamo portando alla gente affinché lo conosca. Noi abbiamo intenzione di muoverci in modo pacifico, trasparente e civile per raccogliere migliaia e migliaia di firme. E in un futuro vicino poter portare sulle strade migliaia e migliaia di persone… L’autodeterminazione dei Kurdi deve essere una scelta proclamata dai Kurdi!”
La posizione dei referendari, di apparente neutralità, di fatto spinge verso un Kurdistan come entità statuale indipendente anche incorporando i sentimenti diffusi tra la popolazione verso arabi e iraqeni: “indubbiamente altre risposte sono possibili oltre alla nostra, ma noi riteniamo questa la più importante (Nota: cioè quella del referendum). Perché riguarda la questione della convivenza in Iraq, quell’Iraq che ha commesso l’Anfal contro i Kurdi e il massacro di Halabja[3]: ecco perché moralmente, e per molte altre ragioni, non possiamo più vivere con loro. C’è una fascia di giovani che al momento della rivolta del 1991 aveva dieci anni, non hanno mai visto l’Iraq e non conoscono l’arabo: ormai non c’è più nulla da condividere con l’Iraq, se non le esperienze del passato…. L’Iraq è composto da due nazioni, non è una sola nazione, esiste una nazione che si chiama Kurdistan che è una nazione diversa dall’Iraq. (Sherko Bekas). Gli incontri avuti in Kurdistan, dunque, confermano una visione differente del futuro Kurdistan nel quadro del prossimo stato iraqeno. Ma non solo.
Secondo le prospettive sostenute dagli americani, il riconoscimento della legittima autonomia delle regione kurda passa attraverso l’accettazione di tre condizioni, avendo comunque dato per scontato che si sta trattando di un’autonomia regionale dentro all’Iraq. La prima condizione riguarda Kirkuk, in particolare i suoi giacimenti petroliferi, i quali devono restare sotto il controllo della amministrazione federale iraqena che riconoscerebbe una sorta di rendita al governo kurdo. La seconda, richiede che i circa 50.000 peshmerga kurdi confluiscano nell’esercito regolare nazionale. La terza, che i diritti delle minoranze (turcomanni, caldei, ecc.) che vivono in Kurdistan vengano tutelati sulla base di una legge sia federale sia regionale. La questione kurda suscita preoccupazione negli ambienti statunitensi perché si sostiene che un’ampia autonomia ai kurdi possa favorire il separatismo sciita. Una ipotesi negoziale ventilata è quella di permettere alla 18 province iraqene di aggregarsi tra loro costituendo delle entità regionali con sufficiente grado di autonomia. In tal caso ci si potrebbe aspettare un unione delle tre province kurde e, eventualmente, anche la nascita di qualche altra entità regionale. Di pari passo con questa ipotesi, si promuove l’accettazione di un sistema elettorale accettato anche dalla maggioranza shiita e il conseguimento di un minimo standard di sicurezza. L’Amministrazione Americana nella persona di L. Paul Bremer, si è incontrata già almeno due volte in questo scorcio di inizio anno, per cercare di rinegoziare la domanda di autonomia kurda: ma ha ottenuto solo dinieghi. Infatti, la prospettiva sostenuta dai kurdi non collima con le richieste sopra enunciate. Durante l’incontro dell’8 e 9 gennaio a Salhuddin, nord est di Erbil, Barham Salih, alla presenza dei rappresentanti del Governo Transitorio Iraqeno, ha ribadito la volontà di avere una Regione Kurda autonoma non divisa in province. Inoltre, accondiscendendo alla centralizzazione della politica estera, monetaria e di difesa, tuttavia Salih colloca i peshmerga nell’esercito federale ma alle dipendenze del governo kurdo. In merito a Kirkuk, l’importanza economica della città ai limiti meridionali della regione kurda è ampiamente sottolineata: “la città di Kirkuk ha un’importanza particolare in Iraq… Il 40% del petrolio iracheno è qui…. Dal giorno dell’attacco di Saddam al popolo kurdo, da quel giorno in particolare i kurdi di Kirkuk hanno sofferto la politica di arabizzazione e deportazione” (Rizgar Ali – responsabile del PUK a Kirkuk). Dunque kirkuk, specificatamente, al di là del quadro ampio e complesso iraqeno, sta emergendo come nodo significativo della negoziazione e, probabilmente, proprio nei confronti dell’amministrazione americana. Verso la quale i kurdi vantano i crediti dell’appoggio al fronte nord durante la guerra, della lotta al terrorismo accanto alle truppe speciali USA, del mantenimento in sicurezza dell’area e, infine, dell’apporto determinante alla cattura di Saddam. Kirkuk è anche problematica perché, da sempre, città multietnica: dunque oltre al petrolio luogo di un potenziale antagonismo tra fazioni con differenti padrini anche in campo internazionale. Salih il 9 gennaio sembra essere d’accordo su un referendum che permetta ai cittadini di esprimersi sulla amministrazione di Kirkuk. Secondo gli ufficiali della 173° Brigata Aviotrasportata americana che controlla Kirkuk, la città è composta dal 35% di arabi, 35% di kurdi, 26% di turcmeni e il 4% di altra origine (gennaio 2004). Ma questi dati, si riconosce, sono estremamente sommari non solo per le modalità di rilevazione, ma soprattutto perché la città cambia volto giorno dopo giorno assistendo a un progressivo ritorno dei kurdi e a un abbandono degli arabi: “i deportati, tra Kirkuk e dintorni, sono oltre 300.000 e una parte di essi è profugo nei pressi di Sulaimani, altri sono stati mandati a Ramadi, Tikrit e Baghdad. di questi ultimi non abbiamo un numero preciso… Kirkuk è costituita da curdi, arabi, caldei, turkmeni e una piccola percentuale di armeni. Anche le religioni sono varie: c’è l’islam, il cristianesimo e ci sono anche altre fedi. Perciò Kirkuk non è una città semplice e secondo me per quella sua composizione etnica peculiare Kirkuk deve diventare una città di fratellanza e convivenza e il diritto di ogni etnia deve essere garantito. (Rizgar Ali, responsabile del PUK a Kirkuk). Di conseguenza, accanto alle dichiarazioni della volontà politica di concedere il massimo della tutela alle minoranze, da me più volte registrate, emerge il dato obiettivo di una composizione etnica della città alquanto fluida che rende impossibile ogni previsione e difficile la realizzazione di uno schema referendario su una anagrafe di residenti di questo tipo.
La questione internazionale del Kurdistan autonomo
Quando mi parla Barham Salih si definisce realista e concreto. E a conferma dice che “la mia visione, nella situazione attuale, nella situazione realistica attuale del Medio Oriente, è che quest’ultima soluzione (nota: Kurdistan quale stato indipendete dall’Iraq) è molto difficile da ottenere. E anche se avessimo uno stato kurdo questo sarebbe circondato da vicini potenti che ci renderebbero assai difficile uno sviluppo.” I rapporti tradizionalmente non facili con i grandi vicini preoccupano. In particolare quelli con la Turchia, anche se lo spettro del fondamentalismo sembrerebbe poter fare più paura: “l’ostilità nei confronti dell’indipendenza kurda non è finita. La Turchia e l’Iran, e altri paesi che non saranno d’accordo con la separazione del Kurdistan, non l’accetteranno. Però è anche vero che per un paese come la Turchia la nascita di una nazione fondamentalista in Iraq è più pericolosa di un Kurdistan indipendente” (Hikmat Mohammad Karim “Baxtiar). Di fatto, è probabile che la domanda di autonomia kurda vada ad aprire un fronte regionale che causerà nuovi problemi agli alleati, almeno sul piano politico. Perché quell’America, debitrice del supporto offerto dai kurdi fin dall’inizio dell’intervento, “dovrà necessariamente scegliere tra una nazione fondamentalista irachena e un governo laico e democratico in Kurdistan” (Hikmat Mohammad Karim “Baxtiar).
Sabato 10 gennaio 2004, Abdullah Gul, ministro degli esteri turco, è a Tehran per sviluppare i rapporti di cooperazione tra i due paesi. Durante l’incontro ha detto che “noi (turchi e iraniani) dovremmo aiutarli (gli iracheni) a scrivere la loro Costituzione al meglio”, ponendo così nuove ombre sulla questione kurda. Infatti, questa azione può essere letta come un tentativo di coinvolgere l’Iran in una manovra di accerchiamento politico del Kurdistan, il cui futuro è necessariamente legato all’assetto iraqeno che sarà delineato nella Carta Costituzionale. Sempre la Turchia, d’altra parte, si è fatta avanti per offrire supporto agli alleati durante la guerra iraqena con l’intenzione di presidiare le aree nord occidentali del Paese, cioè sotto controllo del PDK. E gli sforzi americani per fare retrocedere le truppe di Ankara, comunque abituate a controllare ampie fasce di territorio iraqeno ai confini tra i due paesi, sono stati consistenti. Quest’ultima missione a Tehran del ministro turco rilancia in un’ottica regionale la questione kurda e l’intera problematica iraqena, rimettendo in gioco addirittura “uno stato canaglia” quale l’Iran. Infatti, alla autonomia del Kurdistan si può aggiungere, in tale prospettiva, il problema sciita. Il grande ayatollah sciita Ali Al Sistani ha dichiarato l’11 gennaio di “insistere per elezioni generali” in Iraq, rifiutando il piano americano supportato dal Governo Transitorio di avere una Assemblea Nazionale Provvisoria non eletta, con ciò aumentando l’incertezza e la confusione sul futuro assetto istituzionale. Verso la componente maggioritaria sciita una negoziazione per via iraniana potrebbe essere dunque auspicabile al fine di arrivare una concertazione delle modalità con cui avviare il processo democratico in Iraq. Con una tesi un po’ provocatoria, oserei dire che sembrerebbe arrivato il momento di provare a coinvolgere l’Iran in alcuni punti cruciali della questione Iraqena che, per gli Occidentali da soli, sono altamente problematici: la securizzazione dell’area rispetto alle infiltrazioni terroristiche confinarie, la definizione dei meccanismi di scelta democratica, l’autodeterminazione del Kurdistan.
In conclusione, il futuro del Kurdistan è ancora incerto quanto il futuro dell’Iraq, ma non credo sia possibile pensare né a un Iraq pacificato né a un contesto regionale stabile senza risolvere positivamente la questione dell’autonomia kurda con un modello esportabile ad altre realtà etniche concordato con i i differenti stati confinanti.
Marco Lombardi
[1] Gli accordi, siglati nel luglio 1994, prevedevano di stabilire modalità decisionali democratiche nel Kurdistan iraqeno, la riorganizzazione del governo in senso più funzionale tramite l’eliminazione di alcuni ministeri, l’utilizzo esclusivo del governo delle entrate ottenute dai dazi sui confini e l’ospitalità ai Kurdi provenienti dagli stati vicini senza però che installassero basi militari.
[2] I punti principali dell’accordo prevedono: l’unità territoriale dell’Iraq con amministrazione di tipo federale, il non utilizzo del territorio kurdo iraqeno da parte del PKK per installare proprie basi contro l’esercito turco, l’unificazione degli eserciti kurdi iraqeni.
[3] La campagna di sterminio promossa da Saddam che ha portato alla eliminazione di circa 180.000 kurdi, di cui 5000 uccisi con l’impiego dei gas nella città di Halabja nel 1988.