A circa una settimana di distanza dallo tsunami di Santo Stefano si può cominciare a fare alcune considerazioni circa le modalità di risposta al disastro che si sono sviluppate globalmente. La questione è complessa perché suscita – soprattutto tra gli addetti ai lavori del crisis management – un dibattito che durerà nel tempo, toccando una molteplicità di aspetti differenti e rilevanti.
Cominciamo dalla questione della prevedibilità. Certamente uno tsunami è prevedibile, perché esso è la conseguenza di un evento disastroso precedente che è rilevato, tipicamente un terremoto di una certa magnitudo avvenuto in una specifica area (forte terremoto sottomarino). L’onda ne è la conseguenza. Tuttavia, la diramazione di un allarme preventivo non è scontata per ragioni tecnologiche e sociologiche. I paesi del Pacifico hanno sviluppato un sistema di allarme che in parte funziona: il Giappone dispone, per esempio, di altoparlanti costieri e di allarmi radio che informano la popolazione del pericolo in poco tempo – anche solo 20 minuti di anticipo sugli tsunami che si verificano in prossimità -. Ma perché il sistema funzioni è necessario disporre di una tecnologia anche semplice di diffusione del messaggio, di un sistema di distribuzione dell’informazione tra i tecnici che con i loro strumenti prevedono lo tsunami e le autorità che hanno il compito di decidere se e come diramare l’allarme, di istituzioni che si assumono la responsabilità di mobilitare la popolazione e di una popolazione che è disposta ad ascoltare le istituzioni per attivare comportamenti anche immediatamente difficoltosi. Rispetto all’area coinvolta la dimensione tecnologica è la più semplice da realizzare in termini di costi e di tempi. La dimensione sociale, invece, è frutto di una lunga sedimentazione del rapporto fiduciario tra la popolazione e le istituzioni: un processo che affonda le sue radici nella cultura (di governo) del paese e che comunque richiede tempi lunghi per essere realizzato. Dunque, se il dibattito in sé è opportuno è assolutamente fuorviante affrontarlo solo in termini tecnologici. Il concetto di disastro e di emergenza insieme alle tecnologie della comunicazione che veicolano l’allarme sottolineano come la questione sia in riferimento a un sistema socio-tecnico, in cui entrambi gli aspetti sono molto rilevanti. Il dibattito sulle dimensioni dell’impatto del disastro. Su questo aspetto percettivo la comunicazione ha fortemente puntato i riflettori. I media, e non solo, insistono sul numero di vittime, indugiando su quelle he hanno coinvolto i bambini di questi paesi. Oggi (4 gennaio) si parla di un terzo delle vittime costituite da bambini. Se si verificano le statistiche demografiche dell’Indonesia (cfr. censimento 2000 su http://www.bps.go.id/index.shtml) si nota come il 30,4% della popolazione sia costituita da persone tra 0 e 14 anni. Per quanto riguarda lo Sri Lanka (dati 2001 su http://www.statistics.gov.lk) alla medesima popolazione corrisponde circa il 27%. Pertanto, le perdite di giovani vite dipendono non da una “strategia dell’onda assassina” ma dalle caratteristiche della popolazione esposta al rischio. Ma anche dal punto di vista strettamente economico, se per esempio consideriamo lo Sri Lanka, l’evento è importante ma non estremo: il grande porto di Colombo era pienamente operativo in 24 ore; il Paese prevede un incremento del PIL di circa il 5% annuo e le attività sconvolte dallo tsunami sono soprattutto il turismo e la pesca, di cui la prima incide sul PIL per il 4% e la seconda per il 2% (cfr. Asiatic Development Bank). Inoltre l’onda ha colpito una ampia fascia costiera, da cui le numerose vittime, ma ha risparmiato – come sempre in questi casi – l’entroterra a partire da mediamente 500 metri dalla costa. Rispetto ad entrambe le questioni (da un lato numero di vittime e percentuale di minori coinvolti, dall’altro entità del disastro economico e modalità di ricostruzione), dunque, appare molto sensato l’indirizzo che emerge dai paesi colpiti, orientati a ottenere soprattutto aiuti economici da gestire all’interno di percorsi di sviluppo, che implicitamente l’emergenza suggerisce, coordinati dai medesimi paesi (cfr. la posizione indiana) o dagli organismi internazionali (cfr. Asiatic Development Bank) e l’indicazione a frenare la corsa a improbabili adozioni internazionali. All’interno di uno specifico contesto di gestione dell’emergenza, la questione dell’impatto che ha avuto in Italia e negli altri paesi occidentali non è affatto secondaria. Lo sforzo mediatico è stato immenso e lo tsunami, in un contesto di diffuso “spirito del Natale”, ha fornito a tutti un facile impegno caritativo confacente con il calendario. Encomiabile ma non immune da doverose riflessioni. Da cosa è stato determinato il particolare livello percettivo intorno all’evento e, conseguentemente, il suo regime comunicativo? Innanzitutto, l’interesse si è mobilitato per i connazionali presenti nell’area: la prossimità delle potenziali vittime ha aumentato la preoccupazione e la partecipazione mediatica al disastro. In secondo luogo lo sconvolgimento ha riguardato paesi considerati poveri: come se questa caratteristica fosse una forma di tutela, dimenticando la teoria del “cumulo degli svantaggi”. Non solo, sono coinvolti paesi verso i quali si confondono sensi di colpa collettivi per un passato di sfruttamento e un presente di destinazione ricreativa economicamente vantaggiosa e, spesso, eticamente dubbia. Non da ultimo, il disastro ha sconvolto le vacanze, un periodo in cui i mali sono esorcizzati per definizione. Ma in particolare, il fatto che lo tsunami sia un disastro di origine naturale e non un cosiddetto man made disaster è stato determinante per mobilitare l’attenzione e gli sforzi internazionali. Infatti, in questo specifico caso non vi sono responsabilità politiche né ideologiche che permettano di distinguere le posizioni tra i paesi. Se nella prima parte di queste considerazioni si è cercato di inquadrare il disastro del 2004 rispetto ai caratteri dell’area colpita, ora sembra opportuno fornire alcuni dati per contestualizzarlo rispetto ad “altri disastri” recenti. Negli ultimi mesi si è sentito parlare della crisi in Darfur: stimiamo circa 100.000 morti, anche in questo caso soprattutto fasce deboli della popolazione, e circa un milione e mezzo di profughi, senza casa e senza cibo. Negli ultimi anni si è sentito parlare della crisi dei Laghi e del Rwanda: si stimano circa 300.000 morti per cause dirette e 900.000 per cause indirette del conflitto, con almeno due milioni di profughi. Perché dunque, tanta differenza di coinvolgimento e interesse sia a livello personale sia a livello istituzionale? Soprattutto perché nel caso dello tsunami la percezione della fatalità democratica del disastro naturale premia rispetto alla consapevolezza delle responsabilità causali (individuali e collettive) degli altri disastri appena citati. In conclusione, come tecnico della crisi credo sia fondamentale leggere quanto è accaduto per intraprendere un’azione coordinata a livello globale volta a ridurre la vulnerabilità di sistemi lontani, ma sempre più interdipendenti, sulla base di considerazioni che utilizzano tutte le informazioni disponibili e non solo quelle più appariscenti. E come uomo di questo mondo globale, non posso che interrogarmi sulle “dimenticanze” che promuovono tanta diversità di comportamenti, e conseguentemente di intervento e risultati, di fronte a emergenze altrettanto gravi e drammatiche.
Marco Lombardi