The Last Resort: le ultime armi di convenienza del jihadismo globale – by Emilio Palmieri

Da qualche tempo sulla stampa internazionale vengono riportate notizie di quella che è ritenuta la nuova strategia del jihadismo globale: l’impiego di attentatori suicidi che possiedono caratteristiche psicologiche e sociali particolari. Si tratta di individui, principalmente donne, sofferenti di disagi mentali, nonché adolescenti sottoposti ad una azione di plagio da parte della virulenta retorica qa’idista.

Queste “weapons of choice”, ovvero “armi” che sono scelte specificatamente dalle organizzazioni jihadiste, possiedono una duplice valenza:

  • costituiscono una seria ed efficace minaccia operativa in termini di effetti delle loro azioni (solitamente attentati dinamitarde con modalità suicidiaria);
  • hanno la proprietà di essere “force multiplier”, ovvero strumento demoltiplicatore delle forze che una sapiente regia può impiegare, attraverso la veicolazione delle immagini degli attentati compiuti sui canali di comunicazione, come devastante messaggio propagandistico in grado di determinare una esponenzialità in termini di potenziali candidati reclutabili.

Il fenomeno non appare nuovo nella sua espressione. Come si vedrà più avanti, anche in altri contesti territoriali ed in tempi precedenti è constatabile il ricorso, in verità sporadico, ad individui che possiedono particolari caratteristiche psicologiche da parte di strutture jihadiste; quello che appare invece allarmante è la recente connotazione organica del loro impiego in attività terroristiche.

Il profilo.
L’allarme principale si registra nel teatro iracheno. Dal 2006 infatti vi sono continui riferimenti di azioni dinamitarde suicide che vengono compiute da donne con problematiche di disadattamento mentale. Se si dovesse tracciare un generico profilo, il “pattern” di riferimento è quello di donne:

  • con una età media inferiore ai 30 anni;
  • sofferenti di disagi mentali o handicap fisico-mentali (come malformazioni genetiche o downismo) congeniti o derivanti da situazioni contingenti (come nel caso delle vedove di jihadisti);
  • provenienti da contesti sociali particolari, ovvero con carenze di controllo familiare o cresciute in ambienti in cui sussiste un elevato livello di radicalizzazione religiosa;
  • che vivono in realtà territoriali in cui significativo è il riflesso degli eventi bellici.

I primi indicatori di questa tendenza in Iraq risalgono all’aprile 2003. Si è calcolato che ammontano ad una decina i casi di donne con problematiche psichiche che hanno portato a termine attentati dinamitardi suicidi. Tuttavia è dall’inizio del 2008 che si registra un impiego non occasionale ma organico di donne impegnate in azioni militanti. Nello scorso febbraio infatti è avvenuto un attentato, presso un mercato rionale in Baghdad, che ha prodotto almeno 100 morti: l’atto è stato eseguito da una donna che si è scoperto essere sofferente di una forte deficienza mentale. A metà marzo, nella provincia di Diyala e presso il sacro sito sciita di Karbala, due donne hanno condotto attentati suicidi che hanno prodotto rispettivamente 5 e 47 morti oltre ad un centinaio di feriti. Poche settimane fa si è registrato un ulteriore attentato dinamitardo presso un negozio di articoli elettrici del centro di Baghdad da parte di una donna mentalmente disabile che ha causato la morte di tre civili ed il ferimento di altre 10 persone. Per comprendere quanto la situazione sia reputata di particolare  allarme, è di questi giorni la divulgazione di un documento da parte di analisti militari statunitensi; nel rapporto viene indicato che la Organizzazione di al-Qa’ida in Iraq, con l’aiuto di personale sanitario, ha reclutato presso due ospedali psichiatrici della capitale delle pazienti ricoverate per il loro utilizzo in missioni suicide. L’operazione di contrasto a tale organizzazione si è conclusa con l’arresto del dirigente di uno dei due ospedali poiché ritenuto elemento di raccordo del movimento jihadista presso la struttura sanitaria.
In tale contesto appare di interesse riportare come il comitato religioso di al-Qa’ida in Iraq abbia sentito la necessità di sancire con fatawa (cioè pareri religiosi) la legittimità delle azioni suicide compiute dalle donne, anche psicologicamente disagiate, poiché ritenute espressione del jihad, diritto-dovere che non è esclusiva prerogativa degli uomini.
Dinnanzi a tale scenario, il governo locale, con la supervisione delle coalizioni multinazionali, ha sentito la necessità di sviluppare una azione di monitoraggio nei confronti di persone mentalmente deficitarie: l’intento è finalizzato non solo alla predisposizione di una efficace azione di contrasto diretta, ma anche e soprattutto allo svolgimento di una azione di cura e protezione dei soggetti con profili e caratteristiche particolari al fine di evitare il loro coinvolgimento (sovente inconscio) in azioni terroristiche.
Molto più recente è un secondo tipo di allarme ovvero le attività militanti condotte da cellule composte da ragazzi in fase pre-adolescenziale. Il modello fa riferimento a soggetti:

  • dall’età compresa tra i 13 e i 16 anni;
  • con un basso tasso di scolarizzazione;
  • provenienti da contesti familiari in cui l’evento bellico ha prodotto disagi e repressioni;
  • che sono nati e vivono nella realtà locale in cui operano e che all’atto dell’inizio della campagna irachena erano poco più che fanciulli;
  • che sono stati radicalizzati ed impiegati da elementi appartenenti al jihadismo militante;
  • verso cui è stata svolta una forte azione di manipolazione;
  • che vengono impiegati in cellule, composte da massimo cinque persone, con a capo individui che hanno appena raggiunto l’adolescenza (16 anni).

Il generico profilo tracciato trova la fonte  in recentissime indicazioni che fanno riferimento ad un gruppo operativo nelle aree suburbane di Baghdad denominato “Youth of Heaven”. La struttura sta compiendo azioni  militari  (anche attraverso attentati suicidi) principalmente contro le ex forze insorgenti sannite, ora raggruppatesi nel movimento del “Awakening Council” ed operanti a fianco delle forze della coalizione. Due sono gli indicatori che emergono dalla attuale situazione e che evidenziano la natura tipicamente insorgente della contrapposizione:

  • innanzitutto, dal punto di vista territoriale, le aree delle operazioni oggetto della contesa fanno riferimento ad hot-spots (quali appunto particolari settori della capitale ovvero i centri di Tarimiya, Taji o Mosul) ritenuti presidi fondamentali per il controllo territoriale da parte delle strutture qa’idiste e che dal 2006 stanno progressivamente rientrando nella sfera di influenza governativa;
  • in secondo luogo il target principale è rappresentato principalmente dalle milizie dei cc.dd. “Concerned Local Citizens” ovvero, come detto, gli ex insorgenti che stanno contribuendo, sotto la guida delle forze multinazionali, alla progressiva creazione di spazi di sicurezza per la popolazione, condizione necessaria per la sedimentazione della legittimazione dell’azione di governo nelle realtà territoriali contese.

 Anche per quanto attiene al problema del reclutamento ed impiego di giovani ragazzi da parte di strutture jihadiste, appare fondamentale una azione da parte del governo tesa a creare migliori condizioni di vita. In particolare rispetto alle giovani generazioni, appare premiante nel lungo termine una attività mirata non solo al monitoraggio e contenimento della minaccia, ma anche e soprattutto all’innalzamento degli standard di vita nelle realtà territoriali che esprimo questi giovanissimi combattenti. La capacità di far leva sulle loro aspirazioni future consentirà l’isolamento delle sacche estremiste che non troveranno terreno fertile su cui esercitare la loro forza attrattiva. Si comprende pertanto come tale azione, intensa e prolungata nel tempo, richieda un apporto sinergico e multi-dimensionale tra le diverse agenzie, nazionali e della coalizione, militari ma soprattutto civili (di educazione, scolarizzazione, socio-assistenziali, sanitarie) con il target di erodere le istanze radicali che attualmente costituiscono l’unico percorso attuabile per questa tipologia di soggetti.
Sia per quanto attiene all’impiego di donne mentalmente disagiate che nel caso dei giovanissimi jihadisti, quello che emerge significativamente è la spregiudicatezza che contraddistingue l’azione di reclutamento: essa viene attuata verso le sacche più indifese della società, utilizzando individui, che possono agire singolarmente ovvero nell’ambito di un network, facilmente manipolabili. Dal punto di vista operativo, il ricorso a tali “armi” parrebbe indurre ad una riflessione di segno opposto. Sono da considerarsi “strumenti della disperazione”, sintomo di una (temporanea?) miopia strategica da parte delle propaggini qa’idiste in Iraq, circostanza peraltro corroborata da diverse informazioni in base alle quali pare sussista una flessione della capacità operativa delle compagini jihadiste. Oppure, e questa sembrerebbe essere la riflessione più adatta, l’organizzazione in tal modo intende utilizzare soggetti che sono più facilmente spendibili con ciò conseguendo il duplice risultato di:

  • utilizzare individui che possedendo caratteristiche psico-somatiche particolari possono muoversi ed operare riducendo la visibilità dell’organizzazione che li impiega, massimizzando nel contempo gli effetti sia in termini operativi che, soprattutto nel caso della “Youth of Heaven”, di propaganda;
  • evitare l’indebolimento delle forze che potrebbero essere impiegate in mansioni altre rispetto a quelle meramente suicide;

Del resto anche in altri contesti sensibili, come ad esempio nelle due fasi della Intifada palestinese, sono stati riportati casi di adolescenti impiegati in azioni dinamitarde suicide: movimenti come al-Fatah e probabilmente anche le Brigate Izzedin al-Qassam di Hamas hanno utilizzato giovani militanti per condurre attività in profondità nello stato di Israele. Accanto a questo aspetto prettamente operativo sul web vengono sovente trasmesse interviste di madri che pubblicamente celebrano il martirio di figli adolescenti che si sono immolati nel corso di attentati suicidi. Inoltre, su diversi siti islamisti, gravitanti anche in ambito Hizballah, sono presenti numerose registrazioni in cui giovanissimi jihadisti si dichiarano pronti a seguire gli esempi degli “shuhada” che li hanno preceduti. Anche per quanto attiene alla guerra civile algerina della prima metà degli anni novanta, sono state molteplici le indicazioni circa l’utilizzo di ragazzi, anche con posizioni di leadership, che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e di appartenenti alle forze di sicurezza locali.

Conclusioni.
La situazione in Iraq è da ritenersi un indicatore di assoluto rilievo analitico. La subdola strategia qa’idista di convertire in forze operative le parti più deboli della società contiene allarmanti profili. E’ pertanto prioritario comprendere le possibili conseguenze  operative  e  tattiche  che  potrebbero  riflettersi  anche  sul  territorio  europeo. Diversi sono i segnali, seppure sporadici e quindi non organici come in Iraq, che fanno ritenere come tale strategia sia stata adottata sin dagli inizi del secolo anche in Europa ed in particolare in Italia. Già nel marzo del 2004 si registra un caso di attentato dinamitardo realizzato con modalità e verso un obiettivo che fecero ritenere plausibile l’ipotesi della azione violenta religiosamente motivata. E’ il caso di un marocchino che, utilizzando delle bombole di gas stipate all’interno della autovettura, tentò di far esplodere il veicolo nei pressi di alcune bombole di idrogeno esterne alle cucine di un fast food della catena statunitense McDonald’s nei pressi di Brescia. Come venne dimostrato dall’indagine conseguente, l’attentatore risultava essere gravato da turbe psichiche derivanti da un forte stato depressivo.
Vi sono stati altri tre casi che forniscono significativi indicatori, anche in termini di profiling, relativi a soggetti “deboli” utilizzati per il compimento di attività militanti di natura jihadista. Innanzitutto il caso di un italiano convertito che una indagine del 2002 indicò come responsabile di una serie di attentati dinamitardi compiuti sin dall’anno precedente in Sicilia e a Milano. Come emerse dalle indagini, si trattava di un italiano con precedenti penali, convertitosi in carcere all’Islam e radicalizzatosi successivamente, che aveva compiuto diverse azioni incendiarie in danno di obiettivi particolarmente sensibili (l’ultimo caso avvenne in un corridoio della stazione Duomo della metropolitana di Milano) e con modalità significative (utilizzo di bombole di gas e rivendicazioni scritte su teli bianchi in cui venivano indicati passi del Corano a giustificazione degli attentati).
Il secondo caso fa riferimento ad una donna di origine belga, con precedenti di tossicodipendenza e di reclusione in carcere, convertitasi all’Islam e sposata ad un marocchino. Con il marito, cui aveva avviato un percorso di jihadizzazione, giunse in Iraq nel corso del 2005 e sul finire di quell’anno portò a compimento un attentato suicida ai danni di una pattuglia di militari statunitense.
Infine, il recentissimo caso di un cittadino inglese tratto in arresto dopo l’esecuzione di un attentato incendiario all’interno di un ristorante di Exeter, una cittadina sita nel sud ovest dell’Inghilterra. Le indagini condotte dalle autorità inglesi hanno permesso di verificare come il soggetto, di 22 anni e da poco convertitosi all’Islam, fosse affetto da gravi disagi psichici e che avesse compiuto l’azione a seguito del suo reclutamento da parte di due uomini sospettati di appartenere ad un network jihadista collegato alla struttura di al-Qa’ida operante nel confine afgano-pakistano.
L’analisi permette di affermare che sussistono diversi e chiari indicatori che consentono di ipotizzare come la strategia qa’idista di utilizzare individui con profili di debole personalità o sofferenza di malattie mentali rappresenti una minaccia attuale. A ciò è possibile associare un ulteriore allarmante dato che incide sulla concreta difficoltà di contenimento della minaccia anche in Occidente: la circostanza che tali soggetti, utilizzando le possibilità offerte da internet, possano, dopo un processo di (auto)radicalizzazione divenire jihadisti militanti “do-it-yourselves” attraverso lo scambio di informazioni operative (ad esempio come assemblare un esplosivo o come svolgere una sorveglianza verso un obiettivo).
In tal senso appare quindi fondamentale l’assetto di una perdurante azione sinergica svolta sia dagli enti preposti alla sicurezza sia da strutture che hanno in carico pazienti con deficit mentali che siano in grado di leggere correttamente gli “warnings”. Il fine è l’impostazione di una strategia di prevenzione tesa al monitoraggio ed eventuale contenimento di quegli individui che per particolari caratteristiche psicologiche possano essere facili strumenti nelle mani di strutture che si ispirano al jihadismo militante.