Durante queste ultimi giorni, alcuni fatti meritano un’attenzione particolare, in quanto da essi emerge chiaramente il ruolo finora sottovalutato della sociologia e dell’analisi che essa può offrire, per l’interpretazione e la valutazione di fenomeni terroristici o ad essi associati. La sociologia in particolare permette di comprendere processi sociali tipici come la socializzazione in connessione con le attività terroristiche e gli ambienti sociali e geografici dove esse si sviluppano.Ne sono un esempio l’attacco ad una casa di preghiera Sikh a Essen cittadina situata nella regione della Ruhr tedesca, laender già tristemente noto per le aggressioni occorse a Colonia durante la vigilia di Capodanno.
E’ una zona per tradizione e storia molto fragile, dove l’industrializzazione ha portato questi agglomerati urbani a produrre quasi la metà del PIL tedesco, sacrificando almeno in parte la ricchezza del tessuto e del patrimonio sociale presente.
L’attacco, peraltro ad opera di minorenni apre alla possibilità di conflitti sociali e quotidiani (come per un altro caso di un agente federale colpito da un minorenne ad Hannover), che è possibile interpretare con assunti e categorie sociologiche differenti dall’asse del conflitto fra Islam e occidente.
Si avverte la necessità di valutare nuovamente le attuali categorie interpretative, che dati gli avvenimenti correnti sembrano ormai obsolete e vulnerabili, di fronte invece ad una minaccia sempre più presente e diffusa sia territorialmente sia temporalmente, capace di sfruttare mancati percorsi di socializzazione in persone minorenni.
Stiamo infatti cavalcando l’onda del conosciuto, del già noto senza rendersi conto che la realtà, anche scomoda e drammatica, è cambiata e quindi le nostre capacità di resilience assessment e di risposta devono cambiare con essa, pena l’incapacità di gestire conflitti sociali potenzialmente e realmente esplosivi.
Questo è solo uno degli esempi saliti ma non troppo, alla ribalta della cronaca: la tendenza mediatica generale è stata quella di affrontare in modo pacato, notizie che rimandano a scenari più cupi come per esempio a conflitti interetnici, difficili ma non impossibili.
Inseriamo qui perché più che opportuno anche il recente attacco a Monaco ad opera di un giovane tedesco di 27 anni che ha accoltellato una persona a morte e ferito tre persone mentre gridava “Allah akbar”: motivazioni ancora da chiarire, non si esclude la pista terroristica ma al momento quella del disagio psichico sembra la via da preferire.
E’ ovvio però che un pubblico impreparato ad eventi simili come quello europeo, agisca rimandando l’accaduto ad un evento terroristico per se. Vittima come è di una pressione psicologica dell’incontrollabile che stenta ad essere arginata da adeguate politiche comunicative, di governo e di preparazione alla risposta ad eventi correlati al terrorismo.
Gli scontri alla frontiera del Brennero rappresentano un’altra area critica per due ordini di motivi: da un lato la situazione precaria rappresentata da un’area di frontiera che vuole essere presidiata e securizzata dal versante austriaco; dall’altro un’arena per uno scontro aperto sulla questione immigrazione e relativa gestione.
Il supporto da parte di anarchici ed altri gruppi estremisti all’ingresso di tutti i migranti, all’abolizione delle frontiere e dei controlli ai confini appare ora molto più chiaro e delineato, sociologicamente parlando.
Come più spesso accade questa tipologia di atti può essere più legittimamente collegata a dinamiche di supremazia, potere economico (ma anche politico), controllo sociale e del territorio, che utilizza ogni mezzo di propaganda (anche gli avvertimenti così a lungo dimenticati) pur di ottenere il fine al quale la massimizzazione delle risorse è destinata.
Una linea di questo tipo, non adeguatamente arginata potrebbe dare l’avvio ad una serie di conflitti sociali incontrollabili e dalle modalità sempre più familiari di guerriglia urbana.
Se è vero che un lato supporta, un altro versante cerca di arginare l’impatto e le conseguenze che certi atteggiamenti, secondo alcuni potrebbero avere.
Ecco quindi il diffondersi di organizzazioni come Pegida (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes) creata a Dresda nel 2014, ma con una sua ampia diffusione e ramificazione nelle principali città europee e una serie di prese in giro allarmanti sulle sue pagine facebook , come quella per la quale ad ogni bus inglese con manifesti inneggianti l’Islam, seguirebbe due bus a sostegno dei britannici.
Non è solo Pegida però, che dovrebbe essere adeguatamente analizzata, ma anche altri partiti politici di estrema destra o quasi come AfD Alternative für Deutschland o Nationaldemokratische Partei Deutschlands. Su questo versante tutto il nord Europa versa nel caos più grande come testimonia anche l’avanzare di condotte o sentimenti razzisti in Svezia o il consolidamento del “The Nordic Resistance Movement” un’organizzazione politica svedese creata nel 1997 sotto gli auspici di un nazionalismo socialista al fine di unificare la Nazione sotto i suoi principi guida.
In questi casi sappiamo che dovremo combattere (forse in Italia non direttamente, ma in Europa di certo) contro l’innalzamento dei livelli di razzismo e xenofobia, nati come risposta casalinga a fenomeni globali, percepiti nella loro incapacità di gestione da parte di un pubblico sempre più spaventato per la possibilità di perdere il ruolo primario e le garanzie di sicurezza (intesa in senso nordico di Welfare) al quale è abituato.
Estremisti quindi, di destra o sinistra si stanno coalizzando o sono in procinto di farlo con fazioni politiche o sovversive che permettono la loro sopravvivenza in un periodo storico dove gli antagonisti di questo tipo era possibile trovarli in piazza solo durante i grandi eventi come gli incontri del G7, G8, G20 e altri o i meeting della World Bank.
E’ bene inoltre ricordare che derive di questo tipo, male o non gestite sia per una parte sia per l’opposto possiedono la stessa potenza destabilizzante, che ancora pochi sembrano avere capito.
Per un momento (metà anni ’90 primi anni del 2000) è sembrato apparire sullo scenario sociale, una lenta digressione dei movimenti collettivi votati alle grandi cause, come lo era stato negli anni ’60 e ’70, in parte dovuto agli effetti di una globalizzazione selvaggia, in parte a successive contrazioni economiche che hanno riversato l’attenzione su un senso di precarietà più intimo e privato: si lottava con i mezzi del diritto, evitando aggregazioni di piazza o procedendo una tantum.
Ora invece sembra ritornare un trend tipico dell’associazionismo impaurito dove la coalizzazione è già un’arma di difesa di per se (come rappresentato dai movimenti di estrema destra) e nella quale le dinamiche di identificazione sociale e socializzazione sebbene dimenticate giocano un ruolo fondamentale oppure si scende a patti, per una sopravvivenza organizzativa interna messa in crisi da anni di repressione come per gli estremisti di sinistra.
L’unico fatto certo è che siamo in presenta di profondi cambiamenti, che ancora stentano ad essere compresi in un framework sociologico e di resilienza organizzativa, che potrebbe fornire spunti utili per la gestione dei fenomeni ad essi correlati.
In questo ambito tre linee guida rimangono da approfondire:
- i legami fra estremisti dei centri sociali e i flussi migratori
- gli effetti della relazione fra estremisti di destra (soprattutto nel Nord Europa) e i correnti flussi migratori
- l’analisi in termini di socializzazione resiliente di come i terroristi hanno lavorato ad una ramificazione ed infiltrazione su diversi fronti, partendo da una familiarizzazione sfociata poi in una logica familistica, tipica di processi di socializzazione primaria (molti dei terroristi degli ultimi attentati sono fratelli o sono cresciuti insieme condividendo una visione specifica, senza dimenticare il ruolo delle madri, figura che rimanda ad altre organizzazioni criminali), ma che non ha superato il passaggio definitivo di una socializzazione secondaria aperta e influenzata dalla cultura dei Paesi di nascita e di vita
Una linea principale sembra essere quella da perseguire ovvero procedere all’analisi e alla valutazione sistematica della resilienza e dei suoi indicatori, intesa come abilità comunicativa, relazionale, tattica, organizzativa e strategica di queste tre tipologie di organizzazioni e le implicazione che le analisi eseguite possono avere per una gestione “più sociale” di fenomeni collettivi, la cui specifica dimensione sembra di tanto in tanto venire dimenticata, in un’Europa (così come l’Italia) sempre più frammentata e ramificata nelle sue derive patologiche di un senso di identità comune cercato, ma mai trovato.