Il nuovo anno si avvia con alcuni eventi che ripropongono il terrorismo all’attenzione delle agenzie di sicurezza e dei media. Soprattutto, si tratta di eventi che reclamano una riflessione sulla minaccia specifica che è sempre consistente sul piano fattuale, fluida e pervasiva, ma bisognosa di una ridefinizione sul piano teorico e interpretativo. Quanto è successo in questi ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti.
Ieri, 11 gennaio, sei persone sono state accoltellate a Parigi, nell’ora di punta alla Gare du Nord. L’assalitore sembra essere un libico, che doveva essere espulso.
Poco prima, a Friburgo in Germania, un sessantatreenne ha accoltellato due donne, uccidendone una. Sembra che tra assassino e vittime ci fosse una conoscenza pregressa, ma la polizia si riserva di dare ulteriori comunicazioni giovedì 13 gennaio.
Ancora, l’11 gennaio è in allarme l’aeroporto londinese di Heathrow per un pacco, bloccato il 29 dicembre, che conteneva uranio in piccolissime quantità, ma parrebbe utilizzabile per una “bomba sporca”. Il pacco era destinato a una ditta iraniana residente nel Regno Unito, era arrivato dal Pakistan via Oman.
L’8 gennaio un trentaduenne iraniano è stato arrestato in Germania perché sospettato di preparare un attentato terroristico. La polizia, che ha perquisito il suo appartamento a Castrop-Rauxel, tra sabato e domenica, dichiara che il soggetto stava per commettere “un atto di violenza grave di minaccia per la sicurezza dello Stato, procurandosi cianuro e ricina per commettere un attentato di natura islamista”.
Non è mio interesse soffermarmi, qui, sulle dinamiche degli specifici eventi.
Evidenzio, rapidamente, la frequenza con cui i più facili comportamenti di attacco sono sedimentati, imitati e replicati in numerosi contesti. E, all’opposto secondo il criterio di “facilità”, come la ricerca dell’attacco chimico-biologico non sia mai stata abbandonata, soprattutto secondo linee di tensione geo-politica prevedibili.
Il silenzio del “terrorismo”, rispetto ad attentati eclatanti, non deve essere scambiato con l’assenza della minaccia, che in questi giorni si è infatti dipanata secondo il classico schema degli eventi classificabili rispetto a basso/alto impatto e bassa/alta probabilità di accadimento: basso impatto/alta probabilità per “accoltellamento”; alto impatto/bassa probabilità per “attacco CBR: nello spazio di queste due dimensioni ritroviamo i diversi possibili attacchi.
Potremmo dire “nulla di nuovo sotto il sole” anzi, secondo una lettura più articolata che incorpora conflitti più ampi in corso (Ukraina/Russia) e lo scivolamento verso forme di guerra parzialmente nuove (dalla Guerra Ibrida alla Guerra Cognitiva), si assiste alla conferma e alla “abilitazione” del terrorismo come un attore legittimo del conflitto.
Proprio per questi caratteri ormai stabili del terrorismo, io credo sia necessario ridefinire una Agenda 2023 per il contrasto alla minaccia, a partire dal riconsiderare la sua definizione.
In parole povere, non si può sorvolare sul fatto che in queste settimane sono stati definiti terroristi, insieme ad alcuni dei soggetti implicati nei quattro eventi da cui sono partito, il Gruppo Wagner (che opera per la Russia) e i Guardiani della Rivoluzione iraniani, questi ultimi in attesa di ratifica della qualifica proposta dalla Gran Bretagna. Ci si rende conto della incommensurabile diversità tra i diversi attori.
Nelle righe che seguono mi limito a commentare alcune linee di indirizzo che affronterò in altri contesti.
L’importanza della definizione di terrorismo è evidente e non ha un senso solo accademico: la definizione del fenomeno è quella che lo inquadra dal punto di vista normativo e ne legittima, pertanto, le azioni di contrasto e repressione. Non esito ad affermare che la definizione di terrorismo corrente è ampiamente superata: legata alla motivazione dell’agire, nella maggior parte dei casi qualificantesi per la volontà di modificare un “ordine costituito”, ormai inutile.
Credo sia sempre necessario ricordare che l’obiettivo del terrorismo è fare paura: si tratta di un atto comunicativo che si struttura in quella prospettiva, di cui la rivendicazione è fondamentale per marchiare, firmare, brandizzare l’attacco, ponendo in evidenza la fonte della minaccia. Questa consapevolezza del processo comunicativo non è sufficientemente consapevole nelle attività di contrasto, anche se evidente nelle immediate reazioni istituzionali ad ogni attacco: la risposta urgente, affidata ai media, infatti è quella di confermare che l’attacco sia un atto di terrorismo oppure no: basta seguire i media dopo ogni evento e le istituzioni che, non sempre, li orientano.
La rivendicazione che afferma l’attacco terroristico o, al contrario, la supposta evidenza che lo nega in quanto tale fanno parte del processo comunicativo e, spesso, si giocano su frazioni di tempo, considerato che “chi parla per primo” comunque stabilisce un vantaggio cognitivo sulla base della fiducia che il pubblico ha nella fonte.
La questione è che l’attribuzione di “atto terroristico” si fonda, per chi lo rivendica, sull’opportunità di appropriarsi dei suoi effetti o, per chi ne nega la ragione terroristica, sulla necessità di contenere quegli effetti.
Il più delle volte si tratta di assecondare le attese del pubblico il quale, bene prima di conoscere le ragioni del gesto, ne attribuisce la qualifica (terrorismo sì/no) rispetto agli effetti che l’attacco ha avuto. In particolare, la ripetitività del gesto (la sua viralità che è coerente con le attese del pubblico, ormai orientata da una lunga ed efficace pubblicistica dei gruppi terroristi) giustifica l’attesa rivendicazione, che per chi rivendica è indipendente dalle motivazioni di chi compie l’atto.
In conclusione, a fronte di una minaccia diffusa, nei confronti dei quali esiste una iper-sensibilità sociale, manchiamo di una definizione condivisa utilizzabile rispetto ai nuovi caratteri della minaccia stessa (pervasiva, mutevole, internazionale, a-specifica) perché si fonda sulle categorie del terrorismo nazionale, destabilizzante lo statu quo, ideologicamente motivato, strutturato sul piano organizzativo.
Si tratta di definizioni sbagliate? Di massima no: ma certamente di definizioni inefficaci perché spiegano l’evento secondo una prospettiva ormai superata e diventata indipendente tra chi compie l’atto e chi lo subisce e contrasta.
Dunque, cosa resta delle definizioni?
Le necessità di rielaborarle non sulla base di una tipologia ideologica e sulle ragioni dell’agire ma in base alle modalità operative e, soprattutto, agli effetti che esitano.
Le norme che inquadrano il fenomeno, e di conseguenza la legittimità operativa di chi lo contrasta, non possono che partire dai sui effetti, cominciando a considerare un atto di terrorismo non per le ragioni che lo motivano ma per le conseguenze che genera.