Negli ultimi anni, in particolare successivamente agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e di quelli avvenuti sul suolo europeo, l’attenzione degli studiosi è stata rivolta a comprendere le nuove caratteristiche del terrorismo internazionale. Più recenti, invece, gli studi inerenti ai processi di radicalizzazione, ovvero i meccanismi attraverso i quali gli individui cambiano i loro atteggiamenti adottando un comportamento potenzialmente deviante ancorato a un’ideologia radicale o estremista. Questi ultimi si concretizzano – in ultima istanza – attraverso il reclutamento all’interno di organizzazioni o gruppi estremisti che utilizzano la violenza per raggiungere degli obiettivi di tipo sociale, politico o di destabilizzazione del contesto nel quale operano. Sebbene il radicalismo non possa essere considerato un sinonimo di “terrorismo”, il processo che spinge gli individui ad abbracciare delle ideologie di stampo radicale è di fondamentale importanza in quanto rappresenta il primo e cruciale passo verso l’estremismo violento.
Parte della gestione organizzativa dell’attento di Mumbai (2008), l’operatività dell’attentato alla caserma Santa Barbara di Milano (2009), la strage di Tolosa da parte di Mohamed Merah (2012) hanno le radici in contesti sociali, economici e culturali molto simili anche in relazione ad attentati recentissimi e diversi tra loro quali: le bombe alla maratona di Boston dei fratelli Tsarnaev (15 aprile 1013), le vittime del “picconatore” Mada Kabobo, immigrato irregolare ghanese a Milano (13 maggio 2013), il soldato inglese ucciso a colpi di machete nei dintorni di Londra da parte di due giovani di origine nigeriana convertiti all’Islam radicale (22 maggio 2013), il ferimento di un militare francese a Parigi (26 maggio 2013). Da un piao d’anni la Siria e le sue derive iraqene sono il grande magnete di attrazione della radicalizzazione, ormai per tutto il mondo globale jihadista.
Il fattore che spesso avvia il processo è un disagio (reale o percepito) che non ha valenza territoriale perché la scarsa qualità della relazione (sociale, individuale, ecc.), spesso alla base di questi comportamenti, contraddistingue oggi realtà suburbane e periferiche come città medio piccole, finora supposte “indenni”.
Questi medesimi ambiti hanno già prodotto in alcuni paesi europei una rilevante quota di aspiranti combattenti jihadisti regolarmente formati in campi specializzati in paesi extra europei (in Germania: almeno 180 persone formate di cui 65 rientrate in Germania per colpire). Già alcuni anni fa, le intelligence europee e statunitense avevano lanciato l’allarme su cellule “non organiche ad al Qaida”, “soggetti isolati o micronuclei pronti a entrare in azione anche in via del tutto autonoma”. Nei tempi più recenti, molti di loro sono partiti per andare ad addestrarsi e poi combattere all’estero, in particolare in Afghanistan e Pakistan. In Siria, secondo le stime dell’antiterrorismo Ue, sono presenti alcune centinaia almeno di europei che sono accorsi a ingrossare le fila delle formazioni come il Fronte al Nusra e ISIS/L, oggi IS.
Spesso il percorso di avvicinamento al jihad nasce nel circuito informale e amicale, in contesti in cui i membri si percepiscono come appartenenti a una comunità discriminata, potenziali “vittime” in cerca di una leadership che li sostenga, formate soprattutto via internet. In questo quadro il luogo di culto è solo il luogo finale del percorso, ma non il vero incubatore.
Dunque la situazione di crisi e disagio diffuso, che ha effetti oggettivi e soggettivi sul vivere quotidiano, favorisce processi di radicalizzazione che possono facilmente sfociare in atti violenti e di terrorismo. La motivazione profonda di ciascuno di questi atti si ritrova nel disagio di cui l’individuo è portatore, trovando nella espressione ad Allah un giustificazione ideologica a posteriori dell’atto. Questa condizione diffusa, sulla quale si basa soprattutto il timore dell’emergere di “lone wolf”, rende ancora più confusa una definizione sempre valida di terrorismo; ma, soprattutto, sempre più pericoloso l’incitamento ad azioni di conflitto e rivolta che spesso si ascoltano nel web o nelle moschee. Sono spesso giovani cresciuti nel disagio sociale o nell’emarginazione delle grandi metropoli, dove l’adesione al radicalismo islamico diviene anche un elemento di caratterizzazione dell’identità sociale: si tratta di giovani musulmani delle periferie, di seconda o terza generazione, che sposano la dottrina e l’ideologia jihadista a contatto con le forze combattenti locali. Non tutti però riescono a partire verso le aree di conflitto e, alcuni, convogliano i propri sentimenti anti-occidentali rendendosi protagonisti di atti ostili in patria. Il messaggio del leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, distribuito in audio e video in occasione del 12° anniversario dell’attacco alla Torri Gemelle, preoccupa ulteriormente perché dimostra la consapevolezza e il potenziale impiego strategico dei “lupi solitari” da parte del terrorismo qaedista. Zawahiri si richiama proprio all’attentato alla maratona di Boston per incitare al jihad sul suolo americano e occidentale con “attacchi disperati che possono essere realizzati da uno o da un piccolissimo numero di fratelli” per promuovere “uno stato continuo di tensione e di trepidazione, (ad arrovellarsi), su quando e dove colpiremo ancora“. Appare chiaro un progetto strategico jihadista che insiste sull’indottrinamento e la formazione diffusa soprattutto via rete per perpetrare attacchi terroristici “solitari”, quelli di più difficile previsione e prevenzione.
In questo momento storico, dunque, i fenomeni che caratterizzano l’area mediterranea sono strettamente connessi allo sviluppo dei processi di radicalizzazione, con le minacce che conseguono, e anzi agiscono da veri e pori booster nei confronti di questi processi.
Anche l’Italia ormai contribuisce per la sua parte a rinforzare le schiere jihadiste, in particolare dirette verso la Siria, con il supporto di cellule spesso radicalizzate in rete che prima che dimostrarsi combattenti sono validi supporti logistici al transito soprattutto di origine balcanica.
Non si tratta di una novità per il nostro Paese, che già negli anni Novanta era punto di riferimento per il reclutamento per le guerre balcaniche (Bosnia), ma di una ripresa dopo una fase di rallentamento dovuta a una minor presenza di reti islamiche organizzate qui, rispetto ad altri stati europei, connesse a una minor radicalizzazione di flussi migratori recenti, non incorporati nei ghetti come in Francia, Belgio, Olanda. Di questi caratteri soffre tuttora il reclutamento per la Siria in Italia che, più che in altre aree, è caratterizzato dal self-recruitment (auto-reclutamento) indirizzato soprattutto attraverso la rete e piccolo gruppi auto-organizzati e non dall’attivismo in moschea.
La potenza della comunicazione nel processo di radicalizzazione è evidente nei fatti recentissimi che hanno portato, in data 18 giugno 2013, alla conoscenza della morte di Giuliano Delnevo nei combattimenti in Siria contro il governo di Bashar Assad. Delnevo, convertito nel 2008 al’Islam con il nome di Ibrahim e combattente per circa un anno in Siria, può essere un esempio drammatico degli effetti denunciati. La sua pagina di presentazione di FaceBook si richiama esplicitamente al jihad ceceno: al Kavkaz Center, il portale web dell’Emirato del Caucaso, una rete di militanti che vogliono creare il Califfato islamico del Caucaso. Tra gli ultimi post datati 12/2 /2013, compare l’immagine di Abdullah Azzam come apparente modello ispiratore di Delnevo. Abdullah Yusuf Azzam (1941 – 1989) era un teologo e maestro sunnita palestinese mentore di Osama bin Laden. E’ stato importante ispiratore, guida e anche organizzatore del jiahd combattente invitando tutti i musulmani a unirsi contro il nemico per riappropriarsi delle terre dell’islam su cui instaurare il califfato. Dunque radicalizzazione via rete ed esposizione ai sermoni dei predicatori hanno portato il giovane genovese a combattere, accanto a un gran numero di jihadisti di origine araba e nord africana in Siria. E a morirci.
Ma altre storie seguono. Come quella di Anas el Abboubi (Marocco 1992), in Italia dal 1999, residente nella provincia di Brescia. Lascia tracce nella rete di Sharia4Belgium e vuole formare Sharia4Italy e partire per la Siria con l’obiettivo di arruolarsi nelle file di Al Qaeda e morire martire, come scrive anche sul suo FaceBook. Verrà poi a arrestato con l’accusa di terrorismo, prima di partire, perché in sospetto di tramare attentati in Italia. Scarcerato se ne perdono poi le tracce (gennaio 2014) in Siria, che ha raggiunto attraverso un network albanese.
Come lui Mohamed Jarmoune, ventenne, bresciano, di origini marocchine: via web entra in contatto con i reclutatori ma non parte. E’ un jihadista del computer che si occupa di raccogliere informazioni e organizzare gli altri: viene arrestato per terrorismo e finisce in prigione in quanto nel suo computer vengono ritrovate informazioni che lo rendono sospetto di tramare un attentato alla sinagoga di Milano.
Ma anche il resto dell’Europa non è immune dalle “sirene” siriane. E’ di aprile 2014 l’informazione che sarebbe morto in un attacco kamikaze Denis Mamadou Cuspert, tedesco che si era unito al jihad in Siria, combattendo con lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS/L). L’uomo, conosciuto in patria anche con lo pseudonimo di Deso Dogg, che utilizzava nella sua carriera da rapper, da quando si era unito alle fila del gruppo jihadista aveva adottato il nome di battaglia di Abu Talha al-Almani, prima ancora quello di Abu Maleeq. Originario di Berlino, veniva da una famiglia mista: il padre era originario del Ghana. «La nazione islamica sta sanguinando per aver appreso la notizia del martirio di un suo combattente jihadista, il fratello Abu Talha al-Almani. Possa lui essere accolto da Dio», si legge in uno dei messaggi apparsi sui forum jihadisti, aggiungendo che «La sua morte è stata causata da un attentato kamikaze condotto dai traditori di Jolani (il capo del Fronte al-Nusra Abu Mohammed) contro la casa dove di trovavano alcuni fratelli dell’Isis». Ma Cuspert era già da tempo, almeno tre anni, sotto osservazione in quanto noto rapper tedesco ben conosciuto nel mondo qaedista per i sui “nasheeds”, cioè i canti di forte ispirazione islamica. Era già considerato come una delle figure più influenti nella promozione del jihad violento, sostenendo la necessità di attacchi agli interessi occidentali, diffusi via web e Youtube. Come sappiamo ès tati seguito da John Foley.
Da differente parte del mondo viene la storia di Wa’el Ahmed Abd al-Fattah, arrestato dalle autorità egiziane in aprile 2014, combattente di ritorno dalla Siria, tra le diverse centinaia di egiziani reclutati da Al-Nusra e/o ISIS. Di questi numerosi stanno costituendo un primo flusso di ritorno, schierandosi con Ansar Bait al-Maqdis, gruppo qaedista operativo nel Sinai, rendendosi responsabili di numerosi attentati in Egitto nei combattimenti contro il regimo di Mohammed Morsi.
Si tratta di storie differenti ma che evidenziano alcuni spunti e tendenze interessanti per queste riflessioni: l’Italia, paese tradizionalmente non tra i più attivi nel processo di radicalizzazione e di terrorismo home grown, non è immune dalla attrazione che i poli di confitto mediterraneo esercitano; sono particolarmente attratti giovani, disagiati, in difficoltà con poche speranze spesso immigrati da tempo, che si auto-reclutano, cercando e offrendosi alle occasioni presenti nel web, per dare il loro contributo al jihad comunque. Giovani che per diversi motivi partono e che.. spesso tornano!