A Parigi è stata siglata un’intesa tra i diversi siti turistici, gli alberghi, i negozi e i musei per condividere gli sforzi di sicurezza tra tutti gli operatori del turismo. D’ora in poi, chi aderirà all’intesa, potrà affiggere una nuova vetrofania, oltre al certificato di eccellenza di TripAdvisor, con la scritta “securi-site”, che certifica che il luogo ha valutato i rispettivi dispositivi di sicurezza, ha formato il proprio personale, ha disposto l’utilizzo delle tecnologie necessarie a supporto e ha apportato modifiche infrastrutturali, laddove necessarie.
La Francia, dopo aver aumentato la consapevolezza della popolazione decidendo di divulgare specifiche informazioni circa quali comportamenti adottare, ad esempio in caso di attentato terroristico, arriva ora a siglare un’alleanza forte e a livello istituzionale con un altro attore fondamentale della sicurezza, ovvero il terzo settore.
Le differenze tra la Francia e il nostro Paese sono evidenti: il paese d’oltralpe conosce bene cosa voglia dire essere colpiti da un attentato terroristico, avendone registrati diversi con modus operandi differenti, mentre l’Italia è rimasta al momento indenne da azioni terroristiche in territorio nazionale. Ne consegue che le Istituzioni francesi debbano rispondere ad un’opinione pubblica che tiene fortemente in considerazione tutti questi aspetti mentre l’agenda politica e istituzionale italiana è al momento focalizzata unicamente sulla gestione del fenomeno migratorio.
Bisogna però rilevare che, nonostante l’urgenza con cui il tema dell’immigrazione si sia imposto sul dibattito e sulle attività istituzionali, il tema della sicurezza partecipata e condivisa non sembra essere facilmente penetrabile nella realtà italiana, nemmeno in tempo “di pace”. La sicurezza è certamente un bene che deve essere garantito dallo Stato, ma se per Stato si intendono unicamente le Istituzioni il risultato che si può raggiungere sarà sempre precario, privo di quel supporto fondamentale fornito dalla partecipazione di tutte le sue componenti che in qualunque modo, anche solo come destinatari finali, siano coinvolte dal tema sicurezza.
Nessuna esautorazione dunque delle Istituzioni in Francia, dove il prefetto ha pubblicamente aperto il tavolo sicurezza al terzo settore dandone anche riscontro tangibile (l’etichetta) ai consumatori, ma solo un’iniziativa utile nel contribuire a diffondere la cultura della sicurezza.
Le Istituzioni italiane devono quindi confrontarsi con due aspetti principali relativi alla vera diffusione della cultura della sicurezza, quella a volte utile a salvare la pelle, per poterla veramente garantire e non trovarsi prima o poi spiazzate.
Innanzitutto, il tema può essere visto come una scommessa culturale declinata secondo la legge della domanda e dell’offerta. La scommessa cultura è la globalizzazione: all’Italia e in particolare agli italiani non è più utile parlare di sicurezza solo per quanto la caratterizza in territorio nazionale. Tra i 285 mila italiani che nel 2016 si sono spostati all’estero ci sono sicuramente concittadini che si sono ricollocati ad esempio in Paesi come Inghilterra e Francia, che certamente hanno un livello di rischio più elevato visti i fatti di cronaca. Saper abbandonare un edificio in sicurezza, adottare comportamenti sicuri in caso accada qualcosa in ambienti aperti sono regole che l’Italia dovrebbe insegnare e promuovere anche alla luce della mobilità dei propri concittadini, verso i quali ha il dovere, fosse anche solo morale, di metterli nelle migliori condizioni di prendere una decisione in momenti di emergenza.
D’altra parte c’è la domanda crescente di sicurezza di consumatori, clienti e cittadini che non trova risposta neppure in termini di consapevolezza diffusa sia dei rischi che delle azioni necessarie a ridurli. Sempre in un’ottica di mobilità delle persone, sia dal punto di vista turistico che commerciale, l’Italia si trova ad essere destinazione privilegiata di viaggiatori stranieri che pretendono delle garanzie nel servizio che gli viene offerto, compresa anche la sicurezza. La sua implementazione, o semplicemente la sua comunicazione qualora gli standard fossero già aggiornati, è chiave fondamentale per la promozione dell’Italia come Paese in grado di offrire servizi che fanno della sicurezza uno degli asset fondamentali.
Il secondo punto si gioca attorno al “cosa fare e cosa dire”. Il nostro Paese vanta a livello istituzionale, in relazione al tema della sicurezza ed in particolare in riferimento agli interventi in situazioni critiche, alcune eccellenze riconosciute e stimate a livello internazionale. Da tempo ITSTIME e l’Università Cattolica hanno avviato con loro, con altre Istituzioni ed Enti e con il terzo settore percorsi di studio e analisi di procedure, sia operative che comunicative, rivolti alle aziende, per tutelare in sicurezza il loro business, agli operatori del settore per metterli in grado di affrontare una crisi riducendo al massimo i danni, alla popolazione in generale e ai turisti con l’unico scopo di dare una risposta alla domanda chiaramente espressa di avere degli strumenti cognitivi che possano guidare le scelte del singolo in situazioni di emergenza. È evidentemente un lavoro di prevenzione non facile ma, forse per la prima volta, le difficoltà principali si riscontrano nella fonte piuttosto che nel destinatario. Se, infatti, l’Italia ha una lunga storia di sforzi operativi e culturali nella prevenzione di diversi rischi (sismico, incendi, idrogeologico, ecc.), per i quali le Istituzioni hanno sempre faticato molto a trovare le leve per la diffusione della consapevolezza dell’esposizione e della necessità di mettere in atto una serie di accorgimenti e attitudini che possano ridurla, in questo caso sono le stesse Istituzioni ad essere restie ad affrontare il tema pubblicamente e a diffondere linee guida di comportamento in caso di eventi, che magari non si connotano come attacchi terroristici, ma che nell’emergenza vengono anche solo percepiti come tali da coloro che ne sono coinvolti. Proprio la percezione, tema che con il rischio gioca un ruolo fondamentale ma che può essere facilmente banalizzata e classificata come errore interpretativo, deve essere la chiave che spinge le Istituzioni al coraggio necessario per farsi carico di questa responsabilità. Le gestione di un evento si concentra infatti sugli effetti che l’evento ha prodotto e non sulle cause che lo hanno generato. Nella realtà in cui ci troviamo, lo scoppio di un petardo, di un copertone di una bicicletta o di una caldaia, non fanno certo pensare ad un incidente, quanto invece ad un probabile evento doloso, anche terroristico. Ferma restando la necessità delle attività preventive in materia di anti-terrorismo, questa deve essere la consapevolezza, non è allarmistica ma quanto mai realistica, che deve guidare le Istituzioni nel provvedere a mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari per un intervento efficace.
La Francia ha parlato ai suoi cittadini e al terzo settore fornendo un esempio di come le cose possano essere fatte. L’esigenza urgente francese di provvedere a dare risposte ad entrambi i fronti è anche dovuta ala riduzione di presenza turistiche nel tentativo di rilanciare il settore proprio spingendo sul tema che più lo ha colpito da vicino. L’Italia può ancora lustrarsi di aver messo in moto la macchina anche senza che specifiche spinte dettate da fatti di cronaca ne dettassero i tempi ma ora è necessario che si dia corso ai risultati ottenuti uscendo definitivamente da quella perversa convinzione per cui “se non si parla del problema, il problema non esiste”. Il problema c’è, quantomeno nel mondo, e spetta anche all’Italia dare gli strumenti ai suoi cittadini per poterci convivere.