Questa riflessione non vuole assolutamente essere l’inizio di una “battaglia” intellettuale o una risposta polemica al recente articolo dell’ex-senatore Luigi Manconi, autore di un pezzo pubblicato sul Corriere della Sera, dal titolo “Perché la resistenza armata è etica”, l’8 marzo scorso.
Tutt’altro.
È un umile tentativo di confrontarsi e analizzare in maniera critica la complessa situazione sociopolitica generata da questa guerra (in)aspettata. Si tratta di esporre criticamente un punto di vista differente.
La decisione di far sopravvivere un popolo, già in evidente svantaggio, rifornendolo di materiale bellico, difficilmente può essere definita “etica”. Questo è il tema centrale.
Qual è dunque l’alternativa?
La resa.
Non quella incondizionata, ma argomentata, seguita cioè da una “nuova” formula negoziale (trattato) supportata da tutta la comunità internazionale così da evitare l’ulteriore sacrificio di adulti e giovani ucraini imbottiti di celebrità mediatica del suo eroe-presidente. I social media sono sì il nuovo campo di battaglia, ma non è facile tenere il controllo di sé e delle proprie comunicazioni-emozioni a lungo termine.
L’eccesso di mediatizzazione può generare l’effetto inverso anche nella politica e nella diplomazia. Fornire le armi aiuta a difendere i confini, ma non i popoli e le loro identità culturali.
Una terra può essere riconquistata, un confine può essere ri-tracciato. La vita dei bambini e la serenità di una famiglia, no.
Oggi il sacrificio, la gloria, l’essere “eroi”, sono tutti elementi simbolici iscrivibili nella dimensione umana, ma che da un punto di vista storico-culturale non hanno lo stesso valore che avevano all’epoca della civiltà greco-romane, e prima ancora. Morire in guerra significava essere ricordati in eterno. Il sacrificio generava una memoria pubblica dell’individuo, condivisa all’interno della tribù-comunità.
Morire oggi per l’Ucraina, in Ucraina, significa alimentare l’odio sociale, lo spettacolo mediatico, la polarizzazione, la distorsione pubblica di termini “sacri”, la parola “etica”.
Si difende ormai il confine ucraino, non il popolo. Molte famiglie sono già fuori dal paese, divise, distrutte, con mariti e figli maggiorenni fatti a pezzi dentro un frame narrativo che li descrive come eroi resistenti.
Per il sociologo Bauman le nostre sono società entropiche creano i fattori delle loro stesse crisi, dove il globale esplode nel locale con effetti dirompenti. Gli effetti di una guerra oggi modificano radicalmente l’infra-ordinario e ogni parte della nostra vita quotidiana diventa improvvisamente uno scenario stra-ordinario perenne.
Seguendo questa logica, la fornitura di armi va ad alimentare indubbiamente la morte, la rabbia e l’eccezionalità degli eventi critici, soprattutto quando, come in questo caso, la situazione bellica è impari fin dal principio.
Dunque, dove sta esattamente l’etica? Nell’illusione di una finta resistenza armata?
Di fronte a tutto ciò, l’alternativa alle armi è la razionalità comunicativa.
Le argomentazioni credibili, ben strutturate e possibili sono i veri ponti diplomatici.
La possibilità, ad esempio, di valutare la resa e capire a cosa questa possa realmente portare in un mondo interdipendente e interconnesso. Provare a far comprendere a un politico cieco come Putin che il mondo è radicalmente cambiato e che il suo progetto di ricostruire la Madre Russia è praticamente impossibile.
Perché nessuno Stato può permettersi oggi di isolarsi, ma ha bisogno di relazionarsi politicamente ed economicamente con gli altri.
Questo modo di procedere potrebbe essere definito un processo negoziale etico, e responsabile.
Come affermava Weber, è necessario considerare le possibili conseguenze delle proprie azioni sulla base del principio dell’«agire razionale rispetto allo scopo», migliorare il bene comune e di conseguenza preoccuparsi dell’impatto che determinate scelte avranno su di esso.
Il senso di responsabilità spinge, in altre parole, a prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e a scegliere in funzione di quelle ritenute migliori o meno peggiori.