Dalla metà di novembre la Wafa’ Media Foundation, agenzia non ufficiale ma ispirata dal Califfato, ha iniziato a pubblicare in rapida successione dei fotomontaggi che ritraggono piazza San Pietro quale bersaglio di “lupi solitari”, così come un’immagine di Papa Francesco decapitato e vestito con una divisa arancione secondo la classica propaganda di Daesh.Le minacce all’Italia, alla Chiesa Cattolica e a Roma sono un classico della comunicazione jihadista: la bandiera del Califfato sventola sull’obelisco in piazza San Pietro nel numero 4 di Dabiq del 2014, mentre Daesh ha voluto addirittura chiamare Rumiyah (Roma) il suo magazine ufficiale. La Capitale inoltre è stata il punto focale della comunicazione jihadista all’indomani dell’attentato di Barcellona il 17 agosto 2017, con numerose minacce tramite immagini e banner prontamente riprese e (purtroppo) immediatamente rilanciate dai media occidentali.
Cosa c’è di diverso allora in queste ultime immagini rispetto a quelle già viste negli anni precedenti?
Come specificato in precedenza, Wafa’ non è un’agenzia ufficiale di Daesh, non dipende ma non è nemmeno vincolata dalle strategie mediatiche del Califfato. Ciò non significa che non abbia studiato e imparato da anni di propaganda jihadista, imprimendo poi un suo taglio personale. Se vogliamo comprendere le immagini che ritraggono possibili attacchi a Roma dobbiamo quindi prima capire come opera questa casa mediatica e che cosa voglia ottenere creando questi contenuti.
La Wafa’ Media Foundation ha promosso contenuti per anni – specialmente dopo degli attentati terroristici come quello a Las Vegas in ottobre – e il suo tentativo è sempre sembrato quello di rincorrere la scia degli attacchi e di celebrarli, incitando a compierne di nuovi. Ma nelle ultime settimane si nota un cambio di strategia: non più rimanere “al seguito”, specialmente dopo la caduta di Raqqa, ma spingere per aprire un proprio percorso strategico e mediatico. Ecco quindi l’idea di sfruttare eventi mediatici e stagionali come cassa di risonanza per i propri messaggi: prima con i campionati mondiali 2018 in Russia, poi ritraendo singoli calciatori ed esponenti dello sport in fotomontaggi in cui sono mostrati in prigione o decapitati, come Messi e Cristiano Ronaldo. Tattica non nuova, già sperimentata da Daesh nella quarta puntata della serie Inside the Khilafah: in questo caso si sfidava il principe Harry proprio mentre l’ex elicotterista patrocinava gli Invictus Games a Toronto. Non solo: Daesh aveva già condotto attacchi e avanzato minacce durante le vacanze di fine anno, così come avvenuto al club Reina a Istanbul il 1 gennaio 2017, o il 19 dicembre 2016 al mercato di Natale a Berlino ad opera di Anis Amri, l’attentatore poi scappato in Italia e ucciso a Sesto San Giovanni pochi giorni dopo l’assalto.
Prima ancora, nel periodo tra fine dicembre 2015 e inizio gennaio 2016, il Califfato non ha condotto attentati in Europa ma la paura di possibili attacchi ha pervaso le vacanze degli europei di un cupo senso di attacco imminente. Il 28 dicembre 2015 Anonymus ha reclamato un’azione contro una presunta cellula terroristica che avrebbe pianificato un attacco contro Firenze, salvo poi sconfessare il tutto una volta passato il periodo critico. Dalla nostra parte della barricata l’apparato mediatico ha fatto la sua parte, sobbalzando ad ogni sussurro al punto che Daesh è rimasto un argomento di prima attenzione nei notiziari per tutto il periodo delle festività, senza aver versato una sola goccia di sangue in Europa.
La casa mediatica Wafa’ Media Foundation ha quindi raccolto questi due elementi: messaggi clickbait, come l’immagine del Pontefice decapitato, posti all’interno di una comunicazione gravitante intorno a eventi apicali o stagionali, dai mondiali di calcio (i primi) alle semplici vacanze natalizie (i secondi).
Bisogna quindi riflettere non tanto sulle minacce rappresentate dai fotomontaggi, quanto piuttosto sulla capacità della comunicazione filo-Daesh di essere flessibile e creativa, facendo leva sulle paure insite o indotte nella nostra società per mantenere in vita la chiamata alla jihad globale e il terrore che è stato seminato per anni dalla propaganda del Califfato nel nostro modo di percepire e vivere. Il 16 novembre il Dipartimento di Stato statunitense ha innalzato il livello di allerta e raccomandato cautela per i suoi cittadini in viaggio in Europa durante le vacanze invernali, mentre in Russia lo spettacolo al teatro Bolshoi per il centenario della Rivoluzione è stato annullato e migliaia di persone evacuate per un (falso) allarme bomba. Segnali tangibili che i jihadisti sentono e interpretano, così come rimangono in ascolto per le nostre reazioni alle immagini delle minacce a Roma e al Vaticano. Immagini tagliate su misura: non è un caso che dopo i mondiali di calcio in Russia la nuova protagonista di questo filone mediatico sia la Città Eterna con prodotti sempre più curati sia nel contenuto visivo che nella retorica del lone wolf, figura ripresa e plasmata per comprendere gli attacchi dell’estremismo islamico e poi da quest’ultimo fatta propria nella propaganda per meglio comunicare con noi.
Spetta quindi a noi, riceventi di questa propaganda, non ripetere gli errori fatti in passato, gridando al lupo ogni volta che qualcuno – che sia Daesh oppure i suoi “figli adottivi” od “orfani” che ne raccolgono e reinterpretano le strategie – voglia innescare in noi una reazione come in un consumato copione dal quale sembra difficile slegarci. Aver sconfitto Daesh a Raqqa non è sufficiente per essere al sicuro: il Califfato e i suoi affiliati stanno mutando, ma se trovano in noi gli stessi bersagli pronti a subire la loro propaganda allora non dovranno far altro che continuare la loro guerra comunicativa come fatto in questi anni, a buon diritto sicuri del successo.
La minaccia posta al nostro Paese è concreta, non c’è dubbio su questo. Il nostro sistema di sicurezza è a pieno regime, come dimostrano il centinaio di cittadini espulsi da inizio anno dall’Italia perché visti come effettivi o potenziali agenti del terrorismo religioso. È ora tuttavia che i media e l’opinione pubblica imparino sì a tener conto del pericolo – che rimane reale – ma anche a saper distinguere i “lupi” dagli sciacalli che cercano di capire come continuare a diffondere il terrore.