L’attentato di Halloween a New York torna a far parlare ancora una volta del pericolo proveniente da jihadisti originari di paesi ex membri di quella che era una volta l’Unione Sovietica. L’attentatore, identificato come l’uzbeko Sayfullo Saipov, era giunto negli USA nel 2010 dopo aver vinto la “green card” alla lotteria che ogni anno mette a disposizione 55.000 permessi.Saipov è solo l’ultimo di una serie di soggetti uzbeki coinvolti in attentati negli USA, come i casi di Jamshid Muhtorov, Fazliddin Kurbanov, Abdurasul Juraboev e il confratello Akhror Saidamketov, senza dimenticare il predicatore Abror Habibov. Questo la dice lunga sulle difficoltà che Washington ha nel riuscire a monitorare chi entra nel paese, come del resto successe a suo tempo con i fratelli Tsarnaev (kirghizi, attacco alla Maratona di Boston), provenienti da un’altra area dell’ex URSS.
Andando oltre il contesto statunitense emerge il coinvolgimento di elementi uzbeki anche in attentati in Europa e Turchia come Rahmatjon Kurbonov a Stoccolma lo scorso aprile, Abdulkadir Masharipov a Istanbul nella notte di capodanno e Akbarjon Djalilov, kirghizo di etnia uzbeka, a San Pietroburgo sempre ad aprile (in seguito veniva arrestato un complice, anch’egli uzbeko, Abror Azimov).
I foreign fighters dell’ex Unione Sovietica
Fonti russe parlano di 900 volontari uzbeki unitisi alle file jihadiste in Siria e Iraq su un totale di circa 9.000 partiti dall’ex Unione Sovietica. Ma ancora prima, quando Osama Bin Laden aveva raccolto le sue forze in Afghanistan la componente uzbeka era tra le maggioritarie, presente con uomini combattenti e donne al seguito.
Non a caso Mosca ha gli occhi puntati sui jihadisti provenienti da paesi dell’Asia Centrale come Tajikistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Kazakistan dove da tempo viene segnalato un incremento dell’infiltrazione del radicalismo di matrice islamista e del jihadismo, spesso in sovrapposizione alle istanze autonomista e nazionaliste. Si tratta di un’area che preoccupa il Cremlino molto più del Caucaso settentrionale che sembra invece sotto controllo.
Nonostante alcuni attacchi vengono ancora segnalati in repubbliche come il Daghestan, la Cecenia e l’Inguscezia, non si è più ai livelli raggiunti nella prima decade del 2000 quando la situazione era chiaramente fuori controllo ed in territorio federale non si è più assistito a episodi come quello di Beslan o del Dubrovka. Del resto il jihadismo nel Caucaso è stato pesantemente indebolito da diversi fattori, sia esogeni che endogeni: se infatti da un lato l’operato delle forze di sicurezza ha depotenziato le varie jamaat con una serie di sistematiche operazioni preventive ed assalti ai nascondigli che hanno portato a numerosi arresti ed eliminazioni, dall’altro la galassia jihadista locale si è sgretolata a causa della partenza di centinaia e centinaia di volontari per Siria e Iraq. Non bisogna inoltre dimenticare la frattura interna tra Emirato del Caucaso e Daesh, con diverse “province” che sono passate con al-Baghdadi, transitando così da una struttura organizzativa ormai disastrata (l’Emirato) a un’altra praticamente inesistente in Caucaso settentrionale (il Califfato). Le operazioni anti-terrorismo hanno fatto il resto.
Nel frattempo in Siria le forze armate di Mosca e quelle di Damasco colpivano duramente le basi dei jihadisti ceceni e daghestani affiliati a Daesh e all’ex Jabhat al-Nusra.
Sul fronte interno negli ultimi mesi diverse cellule e micro-cellule sono state sgominate dal FSB, come lo scorso 30 settembre nella zona di Mosca quando una cellula caucasica del Daesh, sotto il controllo di emissari esteri che progettava attentati in zone affollate della capitale, è stata neutralizzata. In Daghestan invece lo scorso 13 ottobre veniva fermata un’altra cellula del Daesh attiva tra Makhachkala e Mosca.
Quattro giorni dopo in Daghestan le forze di sicurezza eliminavano in uno scontro a fuoco due jihadisti della “banda Shamil” asserragliati all’interno di un edificio.
La minaccia al Mondiale di Russia
Nel frattempo la propaganda del Daesh si sta focalizzando sui prossimi Mondiali di calcio in Russia, con una serie di immagini raffiguranti terroristi che minacciano giocatori come Messi, Neymar, Asensio e Deschamps rappresentati in cattività.
In precedenza erano già circolati altri banner con scritte come “Oh nemici di Allah in Russia, giuro che il fuoco dei mujahideen vi brucerà. Attendete”. Oppure “Aspettateci”. Tema principale del poster è sempre un terrorista armato con sullo sfondo simboli chiave dei Mondiali come stadi e la coppa.
I Mondiali di calcio prenderanno il via il prossimo 14 luglio 2018 e si svolgeranno nell’arco di un mese in ben undici città della Federazione Russa e per l’occasione arriveranno le rispettive nazionali partecipanti con tutto l’apparato di riferimento, turisti, autorità e tifosi a livello internazionale. Un’occasione importante e un target appetibile per i terroristi per almeno tre ragioni:
- Attirare l’attenzione mondiale dimostrando di poter “far male” nonostante la pesante sconfitta subita in Siria e Iraq.
- Causare un danno economico e d’immagine a quella Russia ritenuta responsabile sia della disfatta dell’autoproclamato “Califfato”, sia della distruzione di ciò che era una volta l’Emirato del Caucaso.
- Dimostrare al Cremlino di poter colpire nonostante la strategia preventiva e cautelativa messa in atto dalle autorità.
La propaganda operata dal Daesh nel mese di ottobre ha l’evidente scopo di far salire la tensione e generare terrore in tutti coloro che hanno intenzione di recarsi all’evento. Il classico disturbo del quotidiano e del grande evento che è da sempre un obiettivo primario del terrorismo e che ci ricorda la differenza tra il propagandare un attacco nei confronti di un evento sportivo di quel calibro e il metterlo effettivamente in pratica.
Al momento la situazione nella Repubblica Federale Russa sembra sotto controllo e la strategia messa in atto dal Cremlino è risultata particolarmente efficace nel contrastare il terrorismo islamista e nello scongiurare attacchi. E’ chiaro che Mosca prenderà tutte le misure necessarie per evitare qualsiasi problema.
C’è del resto un precedente positivo: quello delle Olimpiadi invernali di Sochi nel febbraio 2014. Chiaramente i due eventi non sono paragonabili: i mondiali di calcio sono ben altra “partita” perché hanno portata e audience ben più vaste, coinvolgono un’area territoriale più ampia e strutture estremamente complesse come stadi, aeroporti internazionali, infrastrutture di trasporto e hotel che saranno soggette a un traffico ben maggiore rispetto al ristretto contesto di Sochi.
Bisogna però tener presente che anche a Sochi i rischi erano elevati, se non altro per il fatto che il Daesh era ancora in forze e l’Emirato del Caucaso ancora operativo nelle aree non lontane da Sochi, in particolare in Daghestan.
Le minacce erano state lanciate anche in quell’occasione ma tali erano rimaste grazie all’operato delle forze di sicurezza russe. Nei mesi a seguire numerosi jihadisti legati a jamaat del Daesh e dell’Emirato venivano spazzati via, inclusi diversi leader tra cui Kebekov e Suleimanov.
In conclusione
La Russia, nonostante il ruolo di primo piano svolto nella disfatta del Daesh, finora è uno dei paesi ad aver accusato meno colpi dai terroristi e ciò è senza dubbio il risultato di un’ottima attività di intelligence probabilmente dovuta anche a decenni di presenza e infiltrazione capillare nei territori da dove arrivano i terroristi in questione. Gli episodi forse più fastidiosi per Mosca sono stati quelli recenti legati alle evacuazioni per allarme-bomba poi rivelatisi falsi e su cui si sta ancora indagando. Subito dopo sono arrivate le immagini propagandistiche contro i Mondiali.
Bisognerà pazientare per sapere se il jihadismo sarà in grado o meno di colpire all’interno della Federazione Russa. Intanto Europa e Stati Uniti sembrano ben più in difficoltà nel contrastare la minaccia jihadista.