Questa mattina, 17 gennaio, la drammatica consueta abitudine induce a prestare poco orecchio alle notizie che arrivano da Baghdad e che informano del consueto macello di uomini. Senonché la strage all’Università mi richiama all’ordine, ancora per una consuetudine – che tuttavia lavora in modo apposto alla prima – la quale mi lega a colleghi e studenti di un Paese lontano in guerra, Paese che studio.
Sembra, dunque, che ci siano stati 65 morti e 140 feriti tra studenti, professori e personale non docente dovuti a una doppia trappola esplosiva che prima colpisce a un lato dell’ingresso dell’Ateneo e poi, quando tutti corrono per salvarsi dall’altra parte, colpisce nuovamente al lato opposto. Non c’è più ritegno, ma se mai c’è stato nella guerra.
La contabilità dei caduti dell’Università è, come si può immaginare, molto più ampia.
Probabilmente qualcuno ricorda l’attentato di dicembre 2006 con autobomba, guidata contro il posto di blocco davanti all’ingresso del campus, che fece 11 morti e 30 feriti. Disperatamente, tuttavia, questi numeri si annacquano, a fronte dei primi dati rilasciati adesso dalle nazioni Unite, che fissano la contabilità delle morti di civili in Iraq, nel solo 2006, a 34.452.
Solo un mese fa ho avuto occasione di intrattenermi, a margine di un incontro con rappresentanti del Governo Iraqeno, proprio con il Prof. Mosa Al-Mosawe, Rettore dell’Università di Baghdad. Un Ateneo che è sorto nel 1957, ereditando parte dei corsi universitari già avviati in Iraq, che conta dal 2002 ben 24 tra college e dipartimenti di ricerca e formazione, noi potremmo dire che conta 24 facoltà. Il collega mi fornisce alcuni numeri di quanto accaduto in questi ultimi anni, con dati da aprile 2003 ad aprile 2006. In questi 36 mesi, dunque, sono state colpite 379 persone (tra studenti, professori e personale non docente) di cui il 74% non è sopravvissuto. Di questi 187 sono gli studenti vittime (feriti o morti) e 136 le persone, delle tre componenti, immediatamente uccise durante un attacco, il 62% di costoro in possesso di un PhD (Dottorato). Ma a questa contabilità mancano ancora gli assassini più recenti. L’aggiornamento a oggi, infatti, ci porta a 333 morti e 293 feriti. Ma domani?
Il prof Al-Mosawa mi partecipa un appello accorato sottolineando come “la guerra sta causando grandissime sofferenze anche all’Università. Perché non solo vengono distrutte le aule, i laboratori, le biblioteche, insomma tutte le infrastrutture, ma anche la guerra sta colpendo il nostro morale, la nostra capacità, voglia ed entusiasmo che sono alla base delle possbilità di studiare ed educare della comunità accademica. Dobbiamo pertanto fare di tutto non solo per ricostruire l’Università ma soprattutto per aiutare gli studenti e tutto lo staff a superare questi tragici momenti, affinché sappiano confrontarsi con queste drammatiche sfide con pazienza e determinazione. Altrimeni, sarà difficilissimo il ritorno alla normale attività di insegnamento e di ricerca. Un ritorno alla normalità che, se avviato dalla Università, spingerà anche le altre conponenti sociali a fare altrettanto riunendo tutti in una sola speranza di pace e realizzando la pace”.
Non credo ci sia altro da aggiungere.
Marco Lombardi