L’attacco terroristico, che la notte del 22 maggio scorso ha colpito la città di Manchester, ha causato la morte di 22 persone. Fino ad oggi le vittime identificate sono 21 comprese tra gli 8 anni e i 50 anni, di questi 14 hanno meno di 30 anni e 9 sono minorenni.
L’operazione terroristica citata è stata descritta da diversi media internazionali come un attentato diretto contro i bambini.
I bambini vittime sono un tema ampiamente sottolineato dai media, in ogni contesto di crisi, perché scuotono nel profondo la coscienza del pubblico e la cultura occidentale che condivide una definizione anagrafica dell’infanzia, dimenticando invece che essa è una definizione culturale e, come tale, usata come “grimaldello affettivo” nelle strategie di Daesh.
Le giovani vittime di Manchester sono un espediente di rinforzo all’atto terroristico e hanno una valenza opportunistica? Strategica? O addirittura casuale? Le domande sono interessanti perché ogni tassello utile alla comprensione dell’agire dei terroristi aiuta la difficile azione preventiva.
Le motivazioni che hanno spinto la selezione del concerto dell’artista Ariana Grande come obiettivo dell’attentato non sono ancora chiare: l’evento musicale da una parte rappresentava un soft target – che è bersaglio ormai classico della jihad internazionale – e, dall’altra, vedeva la partecipazione di molti minorenni che compongono la maggioranza dei fan della cantante statunitense. In pratica un bersaglio appetibile per l’impatto che l’attacco avrebbe avuto e, tutto sommato, facile per l’impossibilità di una sua securizzazione: dopo il fallimento dell’attacco suicida allo Stadio di Francia, quando l’attentatore venne fermato all’ingresso, ci si aspettava il capovolgimento della prospettiva, con l’attentatore che attende il defluire massiccio dei partecipanti alla fine dell’evento.
L’analisi dell’utilizzo dei bambini come obiettivo delle operazioni terroristiche di matrice islamista merita comunque attenzione in sé. Ricordiamo alcuni drammatici precedenti:
- Ossezia del nord: il primo settembre del 2004 un commando armato, formato da fondamentalisti islamici separatisti provenienti da Cecenia e Inguscezia, attaccano la principale scuola della città di Beslan, tenendo gli occupanti in ostaggio per tre giorni e causando la morte di 385 persone di cui 156 minori.
- Pakistan: il 16 dicembre 2014 i talebani pakistani attaccano una scuola pubblica militare a Peshawar, causando la morte di almeno 100 bambini.
- Kenya: il 2 aprile 2015 gli al-Shabaab attacco il college di Garissa e uccidono 147 studenti.
- Iraq: il 25 marzo 2016 Al Qaeda in Iraq (AQI) uccide 29 giovani che assistono a una partita di calcio a Iskandariya (Baghdad).
- Svezia: il 7 aprile 2017 scorso il cittadino uzbeko 39enne Rakhmat Akilov si scaglia, zigzagando con un camion in precedenza rubato, contro civili in transito in un’affollata via commerciale di Stoccolma (Queen Street), causando la morte di 4 persone (inclusi minori). A detta dei passanti l’attentatore sembrava prendere di mira bambini e famiglie.
Giovani e bambini sotto tiro. Ma essi sono, inoltre, da tempo al centro della propaganda di Daesh e, più in generale, della sua comunicazione.
La narrativa dei bambini vittime degli attacchi e dei bombardamenti della coalizione è costantemente ripresa per sostenere, in genere, eguale risposta negli attacchi di Daesh, per giustifciarli. A riguardo di Manchester, una nostra fonte, residente in Centro Asia, ha infatti presentato la narrativa della rappresaglia come la ragione scatenante l’attacco in Gran Bretagna, sottolineando come questa sia la giustificazione condivisa dell’evento da parte della popolazione. Si tratta delle medesime argomentazioni utilizzate dai simpatizzanti jihadisti sui social nel periodo appena conseguente all’attentato e della retorica proposta da un video riconducibile al Daesh e mostrante il logo di Amaq – della lunghezza di 5.24 minuti, sottotitolato in inglese e intitolato “Just Terror”- pubblicato in rete questa mattina.
Più volte, sui numeri recenti dei magazine del Califfato, è stata fornita la giustificazione teologica a colpire i più deboli, come donne e bambini, perché considerati anch’essi infedeli, al pari dei loro genitori, e quindi future generazioni di combattenti nemici, al massimo utili danni collaterali.
Ma questa propaganda segue una specifica strategica comunicativa, altrettanto drammatica, promossa da Daesh nell’ultimo anno quando ai filmati delle decapitazioni dei prigionieri si sono sostituiti quelli focalizzati sui bambini. Daesh ha voluto prima colpire i suoi nemici, stimolando la reazione conflittuale affettiva, mostrando l’orrore della morte con le teste mozzate. Poi, consapevole che la mediatizzazione promuove comunque assuefazione, anche al peggio, ha mantenuto l’obiettivo spostandosi sulle rappresentazioni di bambini. Abbiamo così visto, in questi mesi, ragazzini di 6 o 7 anni diventare perfetti assassini che sgozzano, per gioco, prigionieri a loro disposizione o li ammazzano con un colpo di pistola alla nuca. Tutto ciò tanto sconvolgente per i kuffar quanto le decapitazioni dei prigionieri.
Queste considerazioni strategiche sono coerenti anche sul piano della tattica operativa. Da un punto vi vista funzionale la grande differenza di età che tradizionalmente intercorreva tra i minori (obiettivo potenziale) e gli attentatori costituiva un limite alla selezione dei primi come obiettivo dell’azione terroristica dei secondi. All’interno di questo contesto, il recente fenomeno di abbassamento dell’età degli attaccanti potrebbe aver giocato da game changer, riducendo il gap anagrafico sopracitato e trasformando i bambini in un obiettivo più facilmente perseguibile perché meno distante, partecipante allo “stesso gioco”, senza remore morali.
Dunque, bambini vittime perché assassini e perché assassinati: un dramma che mette in predicato il futuro del mondo perché squassa le nuove generazioni, perdute. Difficili comunque da recuperare anche quando superano la tragedia.
Una strategia voluta da Daesh, il quale è da tempo impegnato non solo nella occupazione dello spazio, attraverso il controllo del territorio, ma nella occupazione del tempo, attraverso la manipolazione delle generazioni, che sono il futuro.