… ma guarda un po’: Rezgui usava Fb! – by Alessandro Burato

“Un avido utilizzatore di Social Media”, “Davvero attivo sui Social Media”. Potrebbe sembrare la descrizione davvero di chiunque, non solo di un teenager ma anche di uomini e donne non nativi digitali che affollano costantemente i social. E invece è quanto viene riportato oggi da quasi tutte le testate come tratto distintivo di Seifeddine Rezgui, nome de guerre Abu Yahya al-Qayrawani, 24 anni e un diploma di una scuola tecnica e futuro ingegnere, che durante il Black Friday ha ucciso a sangue freddo 38 persone sulla spiaggia di un resort a Susa, Tunisia.

Oggi si fa riferimento ad un profilo Facebook che viene ricondotto all’attentatore dove, mischiati tra post inneggianti il Real Madrid o i rapper più in voga, ce ne sarebbero diversi che inneggiano le bandiere nere del sedicente Stato Islamico.

Il suo ultimo post risalirebbe a Capodanno 2014 quando, scagliandosi contro gli infedeli che gozzovigliavano in questa circostanza mondana, scrive “Mio Dio sollevami da questo mondo ingiusto, fai che queste genti soffrano e muoiano, perché solo quando moriranno si ricorderanno di te”. Prima di quest’ultimo post non sarebbero mancati altri commenti chiaramente inneggiati il Jihad: “Se l’amore per il jihad è un crimine, tutti possono testimoniare che io sono un criminale”, e ancora “gli eroi sono nelle loro tombe, le persone reali in prigione e i traditori nel palazzo”.

Rezgui

Passaporto immacolato, mai uscito dalla Tunisia, dove si è radicalizzato un ragazzo che viene definito tutto casa, scuola e moschea? La stampa rintraccia nella scelta del nome di battaglia un indizio che porta alla città di Kairouan, nota per essere una dei primi centri di sapere sunnita, presso la quale Rezgui si era recato per completare i suoi studi e che fino ad un paio di anni fa era uno dei centri più attivi per il reclutamento di Ansal al-Sharia. Seguendo la linea di un coordinamento, seppure decentrato e senza una catena di comando e controllo strutturata come per le ormai superate cellule terroristiche, l’apporto che il web ha dato può essere stato fondamentale. Uno zombie pronto ad attivarsi che probabilmente è stato consigliato ad interrompere l’attività online ben prima dell’attacco di marzo al Bardo, esattamente agli inizi del 2015, per non destare sospetti e non attirare l’attenzione su di sé dimostrando alcun supporto o apprezzamento per la morte dei 19 turisti nella capitale.

Oggi creano però perplessità le dichiarazioni a caldo del ministro tunisino che, subito dopo la strage, dichiarava che il sospettato era noto agli 007, ma non per fatti che fossero riconducibili al terrorismo. Ad ogni modo, che la “svista” sia vera oppure no, quello che è chiaro è che, come per le stragi di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, i responsabili sono in qualche modo noti alle forze dell’ordine che tuttavia non possono intervenire per debolezza nell’istituire una ferrea linea di demarcazione di quello che è da considerarsi a tutti gli effetti “apologia di terrorismo”. Questo reato al momento non è ha portato a risultati significativi: un comico francese, arrestato e scarcerato nel giro di 12 ore dopo che aveva scritto sulla propria pagina Fb “Per quanto mi riguarda, mi sento Charlie Coulibaly“, e un bambino di 8 anni querelato dalla scuola per aver detto in classe “No, non sono Charlie perché sono contro quelli che fanno le caricature del profeta”. Definita dall’avvocato della famiglia del bambino “isteria collettiva sulla nozione di apologia di terrorismo”, la legge non trova applicazione nei casi in cui dovrebbe essere applicata e intanto, come accade ormai sempre da un anno a questa parte dopo un attentato, spopolano i tweet apologetici su Rezgui e dei suoi atti: “Abu Yahya al-Qayrawani. Che Dio lo accetti e lo premi con la Janna”.

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Il monitoraggio dei Social deve essere fatto, e devono essere dati strumenti a chi ne è responsabile che permettano di utilizzare le informazioni raccolte per prevenire fatti come quelli del Black Friday sulla base di un modello garantista ma che non lasci spazio a se e ma nella lotta alla radicalizzazione online. Il rischio è che ci si annoi sempre più a leggere che i responsabili di atti di terrorismo abbiano trovato nella rete la loro fonte di ispirazione e il mezzo per diffondere le loro deliranti ideologie e che, essendo fatto costante e ripetuto in ogni occasione, finisca con il passare in secondo piano escludendo il tema dal dibattito del contrasto ai processi di estremizzazione.