Il discorso sullo Stato dell’Unione del presidente George W. Bush, poche settimane fa, ha suscitato diverso grado di clamore e di attenzione nei differenti Paesi. In particolare, l’affermazione della presenza di “an axis of evil” costituito da Nord Korea, Iran e Iraq è stata ripresa e commentata con la dovuta attenzione dalla sola Gran Bretagna. Al contrario, negli Stati Uniti intorno a questo tema si è continuato a dibattere e a discutere anche nelle settimane successive.
Certamente ciò è anche la conseguenza del particolare clima che si respira negli Usa, dove la tensione è elevata, sia nell’Amministrazione che nelle persone, e la preoccupazione di nuovi attacchi terroristici è tangibile. In questo momento, infatti, l’America offre un’immagine di coesione interna elevata, di partecipazione comunitaria e solidale agli eventi della storia presente che si manifesta nella ripetizione costante dello slogan “United we stand”, nell’esposizione sulle automobili e alle finestre della Bandiera, nella sopportazione delle diffuse misure di sicurezza.
Al di là delle accuse rivolte ai tre paesi “dell’asse del male”, consistenti nella mancanza di libertà interna, nella preparazione di armi di distruzione di massa e nel supporto alle azioni di terrorismo globale, la definizione di un chiaro obiettivo territoriale – insieme al tema della sicurezza nazionale e della lotta alle nuove forme di guerra del terrore – finisce per conferire agli Stati Uniti un ruolo che non cesserà di creare problemi con numerosi Paesi asiatici, europei e medio-orientali. I sintomi di queste difficoltà, di fatti, stanno emergendo nelle recenti visite di Bush in Giappone e in Korea, dove le pressioni per “smussare” le proprie posizioni sono state significative e, spesso, “di piazza”. L’impressione è che si stia sviluppando una sorte di “sindrome nimby”, originaria delle prime questioni ecologistiche. Nimby, infatti, sta per “Not In My BackYard”: sintetizzando così quel modello per cui, pur essendo tutti i sistemi occidentali (dallo Stato al Comune) sensibili alla questione della collocazione dei rifiuti – tra le prime fonti di inquinamento – tuttavia erano incapaci ad agire perché la discarica o l’impianto di smaltimento si sarebbe sempre dovuto collocare altrove, certo non nel proprio cortile di casa. La guerra al terrorismo sembra riproporre il problema, nei termini per cui pur sembrando a tutti doverosa, tuttavia è bene che non venga a squilibrare le relazioni tra “vicini di cortile”. Oggi non è il caso di ripetere gli errori “ecologici” del passato, anche perché non sembra esserci tempo per porre rimedio a posteriori. Il terrorismo va ormai definendosi come una modalità di guerra specifica di questo avvio di secolo, secondo strategie e modelli a cui non siamo ancora abituati. Sono proprio queste strategie e questi modelli a richiedere nuove forme di cooperazione internazionale che devono poter contare su una profonda revisione degli approcci negoziali locali. Forse tali approcci hanno, nel passato, salvato alcuni Paesi dall’essere bersagli di azioni quali l’attacco al WTC di New York, permettendo tuttavia lo svilupparsi di reti logistiche per le cellule terroristiche piuttosto che il passaggio degli stessi terroristi attraverso confini mantenuti colpevolmente permeabili. Tali approcci oggi non possono più funzionare, pena la costituzione di un sistema incrociato di “Paesi bersaglio” e “Paesi nimby”, in cui tutti saremmo esposti a rischi tremendi e la vulnerabilità del nostro mondo sarebbe incredibilmente accresciuta. Affrontare l’“asse del male” presuppone, dunque, un sforzo di partnership che responsabilizza ogni Governo – per risolvere insieme questioni che vanno dalla condivisione delle informazioni alle politiche di sviluppo – spingendo per la prima volta il mondo a un tentativo di governance globale che non lascia spazio a interessi di parte.
Marco Lombardi