Lo scorso 19 aprile sono stati uccisi dalle forze speciali russe il leader dell’Emirato del Caucaso, Aliaskhab Kebekov, meglio noto come Amir Ali Abu Muhammad e Shamil Gasanov, a capo della jamaat daghestana di Untsukul; il raid è avvenuto a Gerei-Avlak, nella zona di Buynaksk e ha portato alla morte di cinque militanti tra cui le mogli dei due leader.
La Tass ha reso nota una dichiarazione delle autorità russe secondo cui “l’operazione, coordinata da FSB e Ministero degli Interni, ha privato dei propri leader l’Emirato del Caucaso e le bande criminali operanti nel nord dell’area”. [1]
Nel 2014 Kebekov aveva preso il posto dell’ex leader Doku Umarov, ucciso nel settembre 2013 in circostanze misteriose ed era ritenuto dalle autorità russe uno degli organizzatori dell’omicidio del maestro sufi Said Afandi al-Chirkawi nell’agosto del 2012 e degli attentati di Volgograd del 2013.
Secondo Akhmet Yarlykapov, analista della Russian Academy of Sciences (RAS), è plausibile pensare a un feroce scontro tra fazioni legate all’Emirato del Caucaso e altre fedeli all’ISIS. [2]
Un’eventualità da non escludere visto e considerato che le frizioni tra le due organizzazioni sono in corso da tempo, sia a livello endogeno nel nord del Caucaso, sia a livello esogeno tra i gruppi jihadisti caucasici che combattono in Siria.
Fattore endogeno
Tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 diverse Jamaat daghestane e cecene hanno ritirato la propria alleanza all’Emirato del Caucaso per giurare fedeltà all’ISIS, guidato da Abu Bakr al-Baghdadi.
Fonti locali hanno citato undici comandanti di jamaat, di cui sei passati dalla parte dell’ISIS; tra questi Sultan Zaynalabidov (capo della jamaat Aukhovsky), Rustam Aselderov (capo della Vilayat Daghestan), Arslan-Ali Kambulatov (capo del settore Shamil’kalinsky) e Makhran Saidov (comandante del settore Vedeno).
Il 28 dicembre 2014, Aliaskhab Kebekov aveva fatto pubblicare un video nel quale metteva in guardia i membri della sua organizzazione dal passare nelle file del Califfato, col rischio di espandere la “fitna” (discordia) all’interno dell’Emirato del Caucaso, legato ad al-Qaeda. Nell’estate del 2014 Kebekov aveva parteggiato per Ayman al-Zawahiri, durante una disputa del leader qaedista con al-Baghdadi.
Ad inizio febbraio un giovane miliziano dichiaratosi “emiro dell’Inguscezia” e citato dall’ISIS come “Amir Muhammad” ha dichiarato appoggio e solidarietà al Califfato, senza però giurare fedeltà al gruppo di al-Baghdadi. L’inguscio ha inoltre fatto riferimento a Islam Atabiev (Abu Jihad) e Umar al-Shishani, entrambi nell’ISIS.
Fattore esogeno
La cosidetta “fitna” tra Emirato e Califfato si è fatta sentire anche tra le milizie jihadiste provenienti dal Caucaso e attive in Medio Oriente; il sito “Chechens in Syria” spiega come le rivalità siano iniziate nel 2013, quando Umar al-Shishani e la sua fazione Jaish al-Muhajireen wal-Ansar (JMA) si sono avvicinati al Califfato e al-Shishani è stato nominato comandante dell’ISIS nel nord della Siria. In seguito però, al-Shishani e la sua fazione si sono staccati da JMA, decisa a restare fedele all’Emirato e sono entrati a far parte dell’ISIS a tutti gli effetti.
E’ chiaro che uno dei principali fattori che contrappongono Emirato e ISIS è legato al progetto finale della lotta armata; infatti l’ISIS ha intenzione di creare un Califfato dove nazionalità e componenti etniche non hanno alcuna rilevanza e sono anzi osteggiate a favore di un islamismo universalistico e privo di qualsiasi tipo di differenziazione.
D’altro canto l’Emirato del Caucaso, nato nel 2007 dalle ceneri della Repubblica di Ichkeria, punta invece ad espellere i russi dalla regione per formare un’entità statale fondata sulla sharia nel Caucaso settentrionale; due obiettivi chiaramente differenti se non contrastanti.
La stessa leadership dell’Emirato del Caucaso aveva criticato l’esodo di jihadisti verso la Siria, non soltanto in partenza da Daghestan, Cecenia, Inguscezia e Kabardino-Balkaria ma anche dalla diaspora caucasica in Europa. Secondo Kebekov la jihad andava combattuta nel Caucaso settentrionale contro il nemico russo e il flusso verso Siria e Iraq non faceva altro che indebolire l’Emirato.
Alcune considerazioni strategiche
Il fatto che alcune jamaat nord-caucasiche abbiano deciso di lasciare l’Emirato per allearsi all’ISIS non sorprende e in gran parte è dovuto alla fase di forte declino in cui si trova ormai l’organizzazione. Ci sono alcuni punti da mettere in evidenza:
- L’Emirato del Caucaso ha subito colpi durissimi negli ultimi due anni, con l’uccisione di due suoi leader assoluti (Umarov e Kebekov) e molti leader di jamaat locali legate al gruppo. In Cecenia ormai i jihadisti sono in gran parte neutralizzati mentre in Daghestan le operazioni anti-terrorismo hanno portato all’arresto di numerosi terroristi e allo smantellamento di reti locali. Secondo alcune stime, nel 2014 gli incidenti di matrice terroristica in Daghestan sono diminuiti del 20% e le forze di sicurezza hanno eliminato circa 180 jihadisti e ne hanno arrestati più di 200. Numeri pesanti per l’Emirato.
- La minaccia di Sochi, lanciata da Doku Umarov nell’estate del 2013, non ha generato conseguenze; i giochi si sono svolti regolarmente, grazie anche alle imponenti misure di sicurezza ordinate da Mosca e l’Emirato non è riuscito ad andare oltre gli attentati di Volgograd che hanno tra l’altro avuto un effetto controproducente per quanto riguarda l’immagine dell’organizzazione che non soltanto non è stata in grado di colpire Sochi, ma è dovuta ricorrere a odiosi attacchi nei confronti dei civili.
- Aliaskhab Kebekov aveva ben compreso l’effetto negativo di tale strategia e aveva ordinato ai suoi di non commettere attacchi contro i civili, vietando tra l’altro l’utilizzo delle “vedove nere” e spingendo per un’infiltrazione propagandistica a livello sociale e culturale. Un piano che però non poteva dare frutti, in primis perché la propaganda wahhabita fa breccia con molta fatica nel tessuto sociale ceceno e daghestano; in secondo luogo perché l’Emirato era già in frantumi, con alcune jamaat che spesso sovrapponevano il jihadismo con attività criminali e che non ci pensavano due volte a colpire anche i civili, mostrando una carenza di controllo da parte dei vertici dell’Emirato.
- Vi è poi il fattore “diaspora”: molti jihadisti caucasici hanno infatti preferito andare a combattere in Siria e Iraq, indebolendo così le fila dell’Emirato che era in ogni caso già in una fase di forte crisi.
A questo punto sorge lecito chiedersi se l’ISIS riuscirà a infiltrarsi nel Caucaso settentrionale per mettere in atto la “guerra santa” contro la Russia. E’ indubbio che le nuove generazioni nelle file jihadiste caucasiche siano entusiaste dell’ISIS, organizzazione molto più violenta e spietata rispetto a un Emirato in declino. Il fatto che molte jamaat abbiano giurato fedeltà ad al-Baghdadi non significa però che l’infiltrazione sarà semplice, in primis a causa dei rigidi controlli sulla sicurezza messi in atto da Mosca nei confronti dei “jihadisti di ritorno” ; in secondo luogo perché le leadership delle jamaat presenti in Daghestan e Cecenia sono al momento deboli, disorganizzate e necessitano di un supporto non semplice da fornire per l’ISIS. Bisogna inoltre considerare una possibile ed eventuale resistenza da parte di quelle jamaat ancora fedeli all’Emirato del Caucaso.