Le ragioni della visita del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni a Tunisi.
Anche quest’anno l’Italia contribuisce con un proprio rappresentante all’iniziativa di difesa “5+5” presso il CEMRES – Euro-Maghreb Center for Research and Strategic Studies con sede a Tunisi; un impegno importante, data la delicatezza dell’argomento in fase di discussione: la sicurezza dei confini degli stati partecipanti all’iniziativa – Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta (per l’Europa) e Marocco, Mauritania, Algeria, Libia (assente al tavolo dei lavori) e Tunisia (per il nord Africa).
E tra i confini da difendere rientra anche, ovviamente, il Mediterraneo.
Il primo incontro ufficiale del team di ricercatori chiamati ad avviare il workshop del CEMRES si è tenuto, non a caso, a Tunisi il 18-19 febbraio. E anche la visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni in Tunisia, il successivo 25 febbraio, non è un caso, poiché alla Tunisia è riconosciuto un ruolo chiave nel processo di contenimento e contrasto del fenomeno jihadista in espansione e che minaccia nel concreto anche l’Italia. In altri termini, un baluardo contro l’offensiva dell’ISIS.
Perché la Tunisia è così importante? È importante perché in base a quelle che saranno le strategie messe in atto dal governo tunisino in cooperazione con i partner africani ed europei si delineerà il futuro prossimo, della Tunisia, dell’Africa (del nord, sahariana e sub-sahariana) e dell’Italia. Se anche la Tunisia, politicamente in fase di assestamento, non sarà in grado di reggere al contraccolpo del caos libico il rischio è quello di fare la stessa fine: questa sarebbe un’altra minaccia diretta per l’Italia, anche per ragioni di vicinanza geografica.
Qual è la situazione in Tunisia in questo momento?
Non rassicurante. L’economia nazionale – in particolare il settore del turismo – è in forte difficoltà con conseguenze dirette sull’occupazione locale e i fragili equilibri sociali; ricorrenti sono gli scioperi, di categoria e su base territoriale – come dimostrano le violente manifestazioni al confine con la Libia dovute ai controlli che impediscono il piccolo commercio, fondamentale fonte di sussistenza.
In aumento, inoltre, le manifestazioni anti-governative, soprattutto nelle aree urbane.
Sul fronte della sicurezza, il dinamismo del jihad insurrezionale legato ai gruppi libici, all’ISIS, ad al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI) e ad Ansar al Sharia, desta forte preoccupazione. L’attacco registrato il giorno della prima riunione del gruppo di lavoro a Tunisi, ultimo in ordine di tempo (18 febbraio), ha provocato la morte di quattro poliziotti. Il livello di attenzione è dunque molto elevato.
Il collasso della Libia ha portato al rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione della zona del confine meridionale con Libia e Algeria, e di quello marittimo, con una significativa mobilitazione delle unità supplementari dell’esercito, della guardia nazionale e delle dogane. Le aree dei governatorati di El Kef, Kasserine e Sidi Bouzid – dichiarate “zone militari” dal Comitato di Sicurezza Nazionale della Presidenza della Repubblica tunisina – sono teatro da oltre un anno di scontri violenti tra forze di sicurezza e gruppi di opposizione armata jihadisti; desta preoccupazione anche il governatorato di Biserta, dove sempre più numerosi sono gli episodi riconducibili all’integralismo islamico. Preoccupano, infine, i riflessi dell’attuale situazione nel Sahel, in particolare il precario contesto del Mali.
Il limite concettuale
Il governo tunisino è dunque impegnato nella lotta al jihadismo, ma vi è un limite non indifferente che ne frena le potenziali capacità: l’approccio concettuale. Le norme di linguaggio del governo tunisino – è sufficiente leggere i comunicati stampa istituzionali – impongono di utilizzare il termine “terrorismo” per indicare il crescente fenomeno insurrezionale proveniente dal medio e vicino Oriente e insistono per collocarlo nella categoria delle problematiche interne a uno stato nazionale (e che come tali devono essere affrontate dai singoli stati nazionali, con esplicito riferimento alla Libia); ma l’approccio concettuale ha conseguenze dirette sul piano operativo.
E fintantoché il metodo utilizzato per contrastare il fenomeno si limiterà ad affrontare il problema come minaccia di natura interna – dunque limitato ai confini delle singole nazioni e non come fenomeno transnazionale – esso non potrà essere risolto. Al contrario, è necessaria la consapevolezza della natura transnazionale di un fenomeno sempre più aggressivo, capace ed efficace. L’ISIS è intenzionato ad affrontare un nemico globale consolidando i successi a livello regionale.
Il rischio di una politica inefficace
Una strategia di contrasto – basata sulla condivisa consapevolezza della minaccia da affrontare – dovrà prima contenere e sconfiggere il jihad insurrezionale a livello regionale. Così facendo ne ridurrà la spinta propulsiva e, conseguentemente, la sua portata a livello globale. L’alternativa è rappresentata da uno scenario fortemente destabilizzato e incerto il cui rischio potenziale può essere così sintetizzato:
- destabilizzazione della Tunisia come conseguenza del caos libico;
- allargamento all’Algeria della destabilizzazione regionale;
- incapacità di contenere una minaccia puntiforme su un’area territoriale allargata;
- perdita di controllo delle aree periferiche e di confine;
- collasso del sistema di difesa e controllo dei confini dell’area maghrebina e caos regionale;
- cooperazione tra criminalità transnazionale, gruppi di opposizione armata e insurrezione jihadista/ISIS;
- ruolo crescente della criminalità transnazionale nel business dei flussi migratori;
- aumento del rischio di infiltrazione jihadista – connessa ai flussi migratori – e conseguenti attacchi diretti a obiettivi su territorio nazionale o nel Mediterraneo;
- insicurezza dell’area mediterranea occidentale: insorgenza del fenomeno della pirateria, del traffico di armi, di droga e di esseri umani;
- riduzione dei traffici commerciali e delle attività legate alla pesca nel Mediterraneo con dirette e gravi ripercussioni sul piano socio-economico;
Infine, se dopo la Libia dovessero precipitare nel caos anche la Tunisia e l’Algeria, per l’Italia sarebbe estremamente pericoloso poiché verrebbe a mancare il vitale accesso alle risorse energetiche (gas e olio): ciò avrebbe dirette conseguenze sulla nostra quotidianità e sull’interesse nazionale.
Dunque, molte ragioni per agire in maniera proattiva, nessuna per non farlo.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.