Una cosa ci dicono gli scontri nella Valle della Bekaa e a Tripoli degli ultimi giorni: che la stabilità politica in Libano è solo di facciata. Si era pensato, esagerando con l’ottimismo, che l’elezione di Michel Suleiman a Presidente della Repubblica potesse fare da traino per la normalizzazione del Paese. Si era sperato che l’accordo di Doha chiudesse l’anno e mezzo di crisi e segnasse il principio della fine delle violenze. Invece i fatti di questi giorni ci portano a una realtà dai nodi ben più intricati.
Primo fra tutti quello del governo. Suleiman ha dato l’incarico al Premier uscente Fouad Siniora di effettuare quello che, alla fine, può apparire come un rimpasto, con il ritorno del fronte sciita, e quindi di Hezbollah e Amal, nella compagine governativa, dopo che i loro ministri si erano autosospesi per protesta. L’accordo di Doha suggeriva la formazione di un governo di unità nazionale con 30 ministri: 16 membri della maggioranza, undici dell’opposizione e tre scelti direttamente da Suleiman tra personalità giudicate neutrali. A queste il Presidente libanese dovrebbe assegnare due tra gli incarichi di massimo rilievo, scegliendo fra Difesa, Esteri, Finanze, Interno.
Nell’empasse per la formazione dell’esecutivo, il primo motivo di protesta avanzato dal movimento di Hassan Nasrallah è stato quello di dover sottostare ancora a Siniora. Questo “rieccolo” di Beirut non è mai piaciuto a Hezbollah: a suo giudizio troppo sunnita, troppo vicino agli Stati Uniti. Non per niente, alla fine del 2006, la protesta di piazza di fronte al Palazzo del Serraglio a Beirut e il boicottaggio del governo furono orchestrate proprio dal “Partito di Dio” – forte di un solido consenso a livello della popolazione – e direttamente contro il Primo ministro. I tentativi di quest’ultimo di mantenere aperto il dialogo con l’Occidente furono sprezzantemente criticati e interpretati come un piegarsi alle volontà di Washington e all’ingerenza di Israele in Libano. Per tutto questo Hezbollah non vuole sottostare ancora una volta a Siniora.
Inevitabile però è chiedersi quale sia l’alternativa. Perché tra tutti gli esponenti sunniti del “Fronte 14 marzo”, il Premier uscente è quello più “presentabile”. Certo, oltre a lui, a godere di un sostegno politico e popolare rilevante c’è Saad Hariri. Ma il figlio del ben più popolare Rafiq riscuoterebbe ancora meno appoggio in seno all’opposizione. Tanto più che lo stesso mondo sunnita libanese lo squadra con scetticismo, in seguito al suo trascorrere troppo tempo in Arabia Saudita per occuparsi dell’impero economico della sua famiglia, anziché vivere in Libano per seguirne le vicende politiche.
È un’arma a doppio taglio quindi l’incarico che Siniora si trova fra le mani. Formare un governo, inevitabilmente con Hezbollah, significherebbe rischiare l’inimicizia degli alleati vicini, in primis a Washington. Non farlo provocherebbe ulteriori tensioni interne, i cui primi sintomi si sono già manifestati con gli scontri nella Valle della Bekaa e a Tripoli la scorsa settimana. Sinora “il temporeggiatore” quindi? Forse. Ma non dimentichiamoci che dilazionare sine die, in questo caso, non fa altro che avvicinare il Paese alle elezioni parlamentari del 2009 e agevolare la non improbabile vittoria del fronte sciita.
Ben più pericolosa è l’opposizione oltranzista del generale Michel Aoun. L’unico esponente cristiano-maronita dell’opposizione pare essere ancora più agguerrito di qualche mese fa, quando mirava alla Presidenza. A Doha, però, la sua candidatura è stata bruciata e Aoun è apparso come il maggior sconfitto. A questo punto la sua linea politica più che di rivendicazione, per entrare in qualche modo nell’esecutivo, si è trasformata in rivalsa. Di conseguenza, sperando in un nuovo riavvicinamento con gli sciiti, Aoun imputa a Suleiman di aver troppo potere nello scegliere i ministri e reclama un riesame delle prerogative del Primo ministro.
Ma l’operazione richiederebbe una revisione costituzionale, la quale a sua volta non solo è impossibile da realizzare in un panorama politico beirutino tanto fluido, com’è quello attuale, ma ha suscitato le immediate proteste di Nabih Berri.
Quest’ultimo, dal canto suo, sembra essere tornato a prestate maggior impegno nella sua veste di Presidente dell’Assemblea Nazionale, piuttosto che in quella di leader di Amal. In questo senso, è probabile che abbia capito il rischio di emarginazione che avrebbe passato se avesse continuato a fare da semplice gregario di Hezbollah. Non a caso Berri si è speso in prima persona affinché il summit di Doha portasse a un accordo. Il rinnovato ruolo istituzionale di Berri – e quindi di credibilità di fronte al mondo esterno – ha come fine la sua semplice sopravvivenza politica.
Impasse voluta, ma anche inevitabile. Gli errori riguardo al Libano, da parte della Comunità Internazionale e dalla stessa classe politica libanese, sono due: uno commesso, l’altro in corso d’opera. Per quanto riguarda il primo, va detto che Doha è stato sì un successo. Ma si è fatto troppo affidamento sul risultato ottenuto. Quando invece si sarebbe dovuto capire che l’elezione di Suleiman non sarebbe bastata. Fatto il Presidente, si è volto lo sguardo altrove, pensando che tutto fosse a posto. Sulla base di questo approssimativo ottimismo, si è ripreso quell’atteggiamento di attesa che aveva caratterizzato i sei mesi di vuoto di potere alla Presidenza. Oggi a Beirut è il governo a mancare. E tra un anno ci saranno le elezioni. Tutto questo non fa altro che giocare in favore di chi è ben consapevole di avere il favore della piazza. Appunto Hezbollah.
Giovanni Radini