Nella notte tra il 30 e il 31 luglio, un attacco con drone condotto dagli Stati Uniti in un quartiere residenziale di Kabul ha portato all’uccisione di Ayman al-Zawahiri, attuale leader di al-Qaeda e storico vice di Osama Bin Laden. Come già in passato, l’eliminazione di figure apicali del jihad internazionale ha spesso una valenza più simbolica che materiale. Nel caso di al-Zawahiri, questo simbolismo emerge ancora più marcatamente poiché chiude un’epoca storica del terrorismo senza la quale il jihadismo odierno sarebbe molto diverso.
Il medico egiziano è stato per anni il braccio destro di Bin Laden, la mente che ha contribuito a creare un’organizzazione jihadista capace di dichiarare guerra agli Stati Uniti e di partorire un attacco come quello dell’11 settembre. Dopo la morte dello storico leader, al-Zawahiri ha preso le redini di al-Qaeda senza tuttavia riuscire a replicare i successi del suo predecessore. Ormai anziano e isolato, ripetutamente dato per morto, al-Zawahiri era ormai ridotto a figura laterale del jihadismo globale, costretto a nascondersi e afflitto dalla mancanza di carisma rinfacciatagli sin dai suoi esordi. La sua scomparsa, tuttavia, marca, anche solo simbolicamente, la chiusura di un’epoca, quella che ha portato il jihadismo sulla ribalta internazionale e lo ha reso attore protagonista dello scenario di sicurezza globale. La sua morte lascia aperti ad ogni modo anche spunti strategici di rilievo che esulano dall’aspetto meramente simbolico.
Il tema della sua successione.
Dopo la morte di Bin Laden, al-Zawahiri ha avuto il merito di tenere a galla la sua organizzazione evitandone il collasso nonostante i colpi inferti alla leadership dagli attacchi con droni degli USA e dalla sfida posta da Daesh. Il medico egiziano lascia al-Qaeda indebolita al centro ma rafforzata nei suoi rami periferici, in particolare Africa e sub-continente indiano. Molte fonti indicano nell’egiziano Saif al-Adl il naturale successore, in quanto figura riverita e rispettata nella galassia jihadista. Al-Adl però si trova ormai da vent’anni in Iran, a lungo detenuto agli arresti domiciliari e recentemente non è chiaro di quanta libertà goda dal regime di Teheran. Proprio questo aspetto, e possibili sospetti di complicità con lo sciita Iran, potrebbero rallentare la sua ascesa alla leadership in favore di una figura come Abu Abd al-Karim al-Masri, elemento di spicco in Siria.
La reazione del jihad.
Occorrerà monitorare attentamente nel corso dei prossimi giorni e settimane la reazione della comunità jihadista. Sebbene, come detto, spesso considerato un leader non adatto alla battaglia e di scarso appeal verso le nuove leve del jihadismo, al-Zawahiri era una figura dall’alto valore simbolico. La sua morte segue una lunga scia di eliminazioni dei vertici del jihadismo globale, non solo legati ad al-Qaeda ma anche a Daesh. Sebbene sia ancora presto per rilevare reazioni da parte delle comunità online spontanee e della propaganda ufficiale, questi spillover andranno monitorati attentamente anche per capire come sta cambiando l’asse portante di al-Qaeda. Negli ultimi anni, l’organizzazione si è radicata e rafforzata in teatri una volta periferici, dal Sahel al Corno d’Africa, dallo Yemen all’India, spostando il baricentro dalla culla storica del jihad in Medio Oriente. Monitorare e tracciare le reazioni alla morte di al-Zawahiri risulterà utile anche per capire su quali linee di sviluppo, comunicative ma anche geografiche, corre oggi il jihad globale.
Al-Zawahiri a Kabul.
Non si può non notare che il rifugio di al-Zawahiri non era più localizzato tra le aspre montagne del Pakistan ma in un’elegante villetta nel cuore di Kabul. In aggiunta, dalle prime ricostruzioni pare che la casa appartenesse a una figura vicina a Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonimo clan e Ministro degli Interni de facto dell’Emirato talebano. Quest’ultimo elemento sostanzia, se ancora ce ne fosse bisogno, la contiguità esistente tra ampie fette della galassia talebana e al-Qaeda. Il fatto che il suo leader fosse ospitato in una residenza posta sotto protezione del potente clan getta nuova luce su questi legami e sulla vacuità delle promesse talebane dello scorso anno. Le prime reazioni dell’Emirato sono state di condanna dello strike americano, ritenuto una violazione degli Accordi di Doha e un ostacolo a distensioni future. In realtà, viene messa a nudo ancora una volta la debolezza dei Talebani, divisi in svariate fazioni espressioni di interessi e visioni non convergenti tra un’ala massimalista e una più pragmatica. Questo scontro, che va avanti già dalla presa di potere dello scorso anno, contribuisce a far perdere ulteriormente il controllo del territorio, consentendo al jihad di rafforzarsi e di usare il Paese come hub di sviluppo. La complicità del clan Haqqani in questo caso, inoltre, seppur nota, evidenzia come il jihad approfitti di tali connivenze per infiltrarsi non solo nelle zone più remote del Paese ma addirittura agendo indisturbato nel cuore della capitale.
La morte di al-Zawahiri consente agli Stati Uniti di chiudere, in parte, un capitolo doloroso del loro passato e di lenire parzialmente l’umiliazione subita lo scorso anno con l’abbandono dell’Afghanistan. Contribuisce anche a chiudere un’epoca d’oro di al-Qaeda e, forse, a gettarla nella confusione di un presente incerto e parcellizzato tra rami locali ormai forti abbastanza da non sentirsi legati a leadership future che non potranno più vantare il pedigree dei “vecchi saggi”. Spalanca tuttavia le porte ai vari scenari tratteggiati nel corso dell’ultimo anno circa la parabola involutiva dell’Afghanistan come base di lancio di un jihad globale rinnovato e rafforzato anche grazie all’incapacità e alla mancanza di volontà dei Talebani di contrastarlo.
L’eliminazione di al-Zawhiri è un successo che non deve essere confuso con la vittoria nei confronti del terrorismo jihadista, già inopportunamente sottostimato per la minaccia che ancora è capace di portare.