L’attacco terroristico al Museo Bardo ieri a Tunisi solleva questioni di rilevanza fondamentale nel contesto della crisi economico – politica europea, che oramai affligge il Vecchio Continente da più di sette anni. In questo periodo di tempo, infatti le istituzioni e le diverse agenzie di governo hanno potuto solamente dimostrare il loro lato vulnerabile, le loro mancanze strategiche e di pianificazione a lungo termine, l’illegalità e la corruzione sempre più dilaganti di certi atti, l’incomprensione di scenari sociali e l’incapacità di interpretare segni visibili di un malessere comunitario ben radicato.
La crisi di questi anni presenta però caratteristiche di profilo non solo economiche o politiche, quanto di identità nazionale: spesso si sente parlare non di crisi europea o dell’eurozona, quanto di crisi greca, come se le criticità di questo periodo storico non appartenessero ad un’unica regione “Europa”, ma alle singole Nazioni, negando quindi le inevitabili influenze e relazioni che esistono in questa zona geografica, economica e politica sin dalla nascita della Comunità europea nel 1957.
In questo quadro, si ravvisano quindi profonde fragilità identitarie sia interne sia esterne ai confini nazionali delle singole Nazioni europee, dettate non solo da mancate forme di inclusione per gli immigrati, dalla crisi economica e politica, ma da una perdita di riconoscimento di una forma identitaria nazionale, dovuta spesso a sistemi di politiche sociali ineguali e assenti, che non permettono l’identificazione con essi.
L’attentato di ieri ci ha mostrato alcuni aspetti importanti per qualsiasi futura strategia counterterrorism:
- le nazionalità delle vittime- molte di esse europei, dato comunque in stretta relazione alla destinazione – rimandano ad una più vicina costruzione dell’evento entro i singoli confini nazionali: è importante considerare questo fatto come una precisa strategia terroristica, allo stesso modo del luogo prescelto sia esso il Parlamento come prima scelta, dove era in discussione la legge relativa all’antiterrorismo, sia il Museo del Bardo come opzione secondaria, ma di grande risonanza mediatica
- il Museo del Bardo è infatti uno dei più antichi musei archeologici, dove fra i reperti custoditi spiccano antichi mosaici romani di inestimabile valore storico-artistico. Non è la prima volta che terroristi di matrice islamica prendono come obiettivo luoghi ritenuti importanti dal punto di vista dell’identità sociale e del patrimonio umanitario in generale
- è innegabile che la percezione di sicurezza e l’accettabilità del rischio terroristico da parte delle persone comuni è ancora molto alta. E probabilmente a ciò ha contribuito quella “nuova” politica comunicativa, secondo la quale: risulta più semplice oscurare che gestire. Si era già parlato delle responsabilità dei media nella diffusione dei video delle decapitazioni e negli effetti sociali che essi potevano avere. In questo caso, un altro esempio è rappresentato dal video di propaganda circolato due settimane fa, domenica 05 marzo, nel quale due combattenti comunicavano mediante il linguaggio dei segni: una finezza strategica di ottimo livello, che invece ha colto impreparati media e agenzie istituzionali nella loro interpretazione. Perché non si tratta solo di avere pensato a minoranze sociali, come i sordo muti, cosa che per esempio non si è ancora riusciti a fare in contesti di emergenza o disastri nonostante l’egida delle Nazioni Unite. La vera novità è usare una lingua dei segni, che non è universale, ma che si avvale di una base di costrutto nazionale esattamente come le lingue parlate. E quindi, chi erano i reali destinatari di quella comunicazione? Questa informazione però non sembra essere stata sollevata, caduta nell’oblio di una domenica pomeriggio
- il governo tunisino afferma che la guerra sarà lunga. Questa affermazione sinceramente non meraviglia, già Churchill aveva dichiarato che una guerra non è mai piacevole o breve, ammesso che in questo caso di guerra si possa parlare. Non si tratta infatti di un conflitto combattuto unicamente sui campi di battaglia o per mezzo di nuove tecnologie. E’ uno scontro che vede i terroristi attrezzati di armi culturali e framework cognitivi tipici del proprio nemico, comunica con lui in vario modo, cercando di massimizzare le sue caratteristiche comunicative, in un alto ritorno di audience e di fidelizzazione del racconto. Perché è indubbio che oramai stiamo subendo l’effetto “normalizzazione”, grazie al quale l’accettabilità del rischio o della minaccia terroristica si innalzano, come dimostra il turismo di massa in zone comunque a rischio. Sappiamo per certo che tale livello di accettabilità è in stretta relazione a variabili individuali, sociali, alla singola percezione, all’esposizione agli eventi e alla interpretazione dei fatti, ma anche alla costruzione sociale e mediatica dell’evento stesso o della minaccia. Stiamo comunque parlando di rischi e minacce per i quali le ordinary people non hanno il benché minimo controllo. In effetti riusciamo a stento a comunicare un rischio idrogeologico o sismico, come possiamo fare con una minaccia terroristica, della quale i più non conoscono le origini e gli intenti?
- la figura del turista che ha subito notevoli trasformazioni negli ultimi sessant’anni. Fino a qualche decennio fa, il viaggio in sé era infatti considerato essenzialmente in due modi: un lusso, come per esempio le crociere, per chi aveva quindi disponibilità economiche adeguate per sostenerlo o un’avventura per i più sbandati del gruppo, ai limiti del vagabondaggio. Poi, complice il boom economico e un maggiore benessere, anche i viaggi sono diventati di massa, spesso con la costruzione di villaggi turistici, che riproducono e rivendicano in luoghi lontani ed esotici, i comfort e le abitudini dei propri Paesi di origine. Ad oggi è possibile raggiungere qualsiasi meta senza particolari problemi, ammettendo di conoscere i luoghi che si intendono frequentare. Non si tratta ovviamente di attualizzare un tema degli anni Ottanta come quello del turismo responsabile o ecosostenibile: in questo caso la responsabilità non è verso l’ambiente o l’ecosistema da rispettare (come era la filosofia originaria di questo movimento), quanto il minimo riconoscimento degli scenari socio-politici dei luoghi prescelti.
In questo contesto però non occorre drammatizzare situazioni già di per sé critiche: significherebbe a questo punto, data la mancanza di piani strategici, di stravolgere la propria quotidianità in funzione di una minaccia reale, ma sconosciuta. Piuttosto è il caso di prendere spunto dalla storia preistorica, pensando al fatto che gli uomini primitivi non hanno demandato il loro diritto a cacciare pur in presenza di predatori, quanto hanno analizzato la situazione e proposto soluzioni. C’è una bellissima frase di Giuseppe Verdi che dice: “Tornate all’antico e sarà un progresso”.
Ecco forse in questo contesto è il caso di tornare a meccanismi e dinamiche sociali più resilienti, più flessibili, adattabili, che presentino una minima considerazione del contesto socio – politico nel quale si vive. Al momento le risposte in ambito terroristico non stanno dando i risultati sperati, probabilmente perché la prospettiva non è quella corretta e le soluzioni non quelle più adeguate. E’ qui che entra in gioco la prevenzione al terrorismo attraverso la formazione e la comunicazione, che mirino all’inclusione e alla partecipazione di tutti i gruppi sociali, con ovvie finalità latenti di controllo.
E’ sempre qui, su questo sdrucciolevole terreno democratico, che si gioca una partita importante per le democrazie europee, messe a dura prova da anni di crisi economica e politica, che ha influito notevolmente all’inasprimento dei conflitti sociali, pronti a scoppiare nel momento della loro più alta maturazione. Anni di democrazia insegnano che il governo di un Paese si basa sul consenso e sul riconoscimento reciproco delle varie identità presenti, cercando una loro conformazione specifica. Qui, l’Unione europea ha perso quella forte spinta identitaria che invece era stata auspicata dai padri fondatori come per esempio Robert Schuman. Senza dimenticare quello che è conosciuto essere il “dilemma Thomas Mann” ovvero “Europa tedesca o Germania europea?”, che lo scrittore tedesco aveva posto agli studenti dell’Università di Amburgo nel lontano 1953.
Ad oggi esistono -o forse sarebbe meglio dire persistono- meno i singoli Stati e gli spiriti nazionalistici, che compongono l’Unione europea ed in concomitanza non esiste ancora una reale Unione Europea, pronta a combattere in modo unitario e compatto sulla scena internazionale, la minaccia terroristica non come scontro fra culture o guerra, ma come rischio concreto per tutte le democrazie.
L’attentato di ieri (18 Marzo 2015) ci insegna ancora una volta una lezione molto importante, per noi occidentali considerati i depositari della democrazia nel mondo: ovvero che la democrazia o comunque i principi democratici di governo, prima ancora di essere una forma di governo autonoma sono un approccio sociale e culturale e nessuna rivoluzione, nemmeno quella per esempio dei Gelsomini in Tunisia di qualche anno fa, potrà radicalmente importare. E rimane da chiedersi quale prezzo stanno pagando i Paesi della cosiddetta Primavera Araba, nella loro pseudo svolta democratica?
La Storia ha infatti dimostrato che non esiste uno spirito democratico per sé, ma che si impara ad essere democratici faticosamente, nel libero esercizio quotidiano delle attività democratiche: informazione, libertà di espressione di tutti, inclusione sociale e controlli a garanzia di una sicurezza partecipata e condivisibile.