Las Vegas 58 morti: la micidiale guerra della comunicazione continua a colpire, in maniera drammatica perché in suoi proiettili generano sempre più incertezza, quando invece comprendere lucidamente le caratteristiche del nemico è fondamentale.
Oggi è avvenuta a Las Vegas la peggiore strage mai compiuta in America con armi da fuoco: tal sessantaquattrenne Paddock ammazza 58 persone, ne ferisce 500, sparando dal trentaduesimo piano del suo albergo, sulla folla che si gusta un concerto country.
E poi scoppia la guerra, quella dei media e del web in cui Amaq, l’agenzia ufficiale di Daesh, rivendica l’appartenenza dell’assassino al Califfato, dopo una conversione avvenuta mesi addietro. Appartenenza subito smentita da FBI e Presidente che negano ogni legame col terrorismo.
Chi ha ragione? Di certo Pirandello, nella narrativa che si diffonde tra i cittadini sempre più spaesati.
D’altra parte Daesh ha inaugurato con l’abbattimento del jet russo da Sharm el Sheik, nel 2015, la strategia dell’inversione dell’onere della prova: tocca a noi dimostrare che non è stato un uomo del Califfo a colpire, a seguito di una semplice affermazione di appartenenza lanciata dai canali islamisti.
In fin dei conti è una strategia poco costosa e assai efficace: tutti gli studi dimostrano che la comunicazione mediale non fa cambiare opinione ma conferma le opinioni, pertanto chi crede a Daesh, perché ha paura della sua minaccia o affascinato dal suo richiamo, troverà in Amaq le proprie conferme. Al contrario in FBI chi fosse del “partito opposto”.
In questa situazione l’unico che ne trae vantaggio è proprio il terrorismo perché conferma chi è disponibile mentre, comunque, insinua il dubbio nei restanti.
Siamo di fronte a delle modalità operative di Daesh che sono sempre più flessibili ed evocative, piuttosto che programmatiche e organizzative, che testimoniano l’attuale situazione dell’organizzazione sul campo e il rimodellamento della catena di comando e controllo.
Non possiamo non ricordare che cinque giorni fa il Califfato lanciava il proprio appello a colpire in “America, Russia, France, Britain, Canada, Belgium, Australia and Italy” invitando i musulmani a non frequentare i luoghi affollati.
Non si può non sottolineare la comunicazione seriale di “Knights of Lone Jihad”, che con brevi comunicati descrive attacchi sullo stile di Willy Coyote: semplici, poco costosi, evocativi… possibili a tutti dunque.
Non si può non considerare una progressiva viralità dei comportamenti imitativi, da dopo Barcellona, che conta su una diffusa e capillare militanza, non necessariamente ideologicamente aderente al Califfato, ma comunque pericolosa per l’adozione delle medesime tecniche operative.
E’ in questo contesto, del profilarsi di attacchi sempre più frequenti e non necessariamente ad alta intensità – il risultato dipende dalle possibilità offerte localmente –, che l’appropriazione comunicativa di un evento che è coerente con l’immagine che il pubblico ha di Daesh paga certamente, senza costare nulla.
E’ in questo contesto che si scatena la guerra comunicativa perché se da una parte Daesh coglie l’occasione per affermare la propria presenza quotidianamente combattente, dall’altra parte si profilano strategie istituzionali che preferiscono affidare a diagnosi psichiatriche le ragioni degli eventi.
Nella maggior parte dei casi la ragione si ritrova solo nella convinzione personale di chi vuole credere all’una o all’altra fonte. Non nella relazione della comunicazione con i fatti.
Chi ci va di mezzo in ogni caso è il cittadino, il quale ha ormai maturato una adeguata consapevolezza del rischio che corre e della minaccia a cui è esposto, ed è pertanto disposto ad affrontare la verità.
A conferma di ciò, poche ore prima di Las Vegas, la medesima guerra comunicativa si svolge a Marsiglia, dove l’assassinio di due poverette è rivendicato da Daesh. Rivendicazione negata, anche qui, dalla polizia.
Insomma, il panorama entro il quale la guerra ibrida del terrorismo si sviluppa è sempre più complicato e, pertanto, la chiarezza è necessaria per comprendere la minaccia e poterla anticipare.
Se infatti, sul piano politico spesso lo scoprire che un attacco terroristico – che comunque lo è per gli effetti che ha generato indipendentemente dalle ragioni che lo hanno motivato! – non è firmato da Daesh fa tirare un sospiro di sollievo. Sul piano operativo non ci resta che piangere: perché significa che non si è riusciti ad avere una efficace azione preventiva. Una azione che, affidata alle attività di intelligence, oggi non può non essere accompagnata anche ad una azione di riduzione del danno, per la quale la partecipazione dei cittadini, cioè delle vittime, insieme ai corpi chiamati per primi a rispondere, è fondamentale.