Nei giorni appena trascorsi l’attenzione del mondo si è concentrata sul One Belt One Road Forum, vertice tenutosi a Pechino per il lancio dell’iniziativa geopolitica cinese della “Nuova Via della Seta”, una delle più grandi opere infrastrutturali e logistiche mai realizzate e probabilmente la maggiore impresa dell’amministrazione Xi Jinping in ambito di politica estera.
Secondo il mastodontico progetto, stimato intorno ai 900 miliardi di dollari, saranno realizzate la Silk Road Economic Belt, un ambizioso collegamento terrestre in grado di connettere la parte occidentale della Cina con l’Europa transitando per Asia centrale, Medio oriente e Caucaso, e la rinnovata Maritime Silk Road, una rotta marittima capace di mettere in comunicazione il sud-est asiatico, il Golfo Persico, il Corno d’Africa e i porti di Atene e Venezia.
La “Nuova Via della Seta” includerebbe così circa 2/3 della popolazione e 1/3 della produzione economica mondiale.
Se nelle intenzioni il progetto della “Nuova Via della Seta” non può che essere positivo, l’entità economica dell’iniziativa descritta, le sue finalità geopolitiche e modalità di realizzazione potrebbero generare un potenziale aumento del conflitto in un contesto geografico che, allo stato attuale, risulta essere caratterizzato da forte instabilità diffusa ed elevata criticità per la sicurezza sia regionale sia globale. È quindi necessario che nella pianificazione del progetto la “Nuova Via della Seta” si interfacci con le minacce legate al terrorismo jihadista e al crimine organizzato che insidiano le sue aree di passaggio.
Non solo, per esempio, i flussi di finanziamento derivanti dalla “Nuova Via della Seta” potrebbero essere banalmente intercettati dal crimine organizzato, che ne trarrebbe beneficio, ma il progetto potrebbe anche configurarsi più come una potenziale minaccia che una possibilità per le organizzazioni criminali e jihadiste: lo stanziamento dei finanziamenti destinati alla realizzazione dell’opera incrementerebbe il bisogno di sicurezza nelle aree interessate con conseguente aumento del controllo statale su di esse. La riqualificazione dei suddetti territori e il relativo innalzamento del controllo promuoverebbero una generale stabilizzazione del contesto che metterebbe in pericolo gli interessi del terrorismo e del crimine organizzato che necessitano proprio di instabilità e deregolamentazione per perdurare e che, in territori come Pakistan, Afghanistan e molti altri, hanno creato presidi e rifugi.
La messa in opera della “Nuova Via della Seta” potrebbe quindi coincidere con un aumento dell’attività e della collusione jihadista e criminale lungo il suo percorso.
Allo stesso tempo, una tale opera “di linea” potrebbe rappresentare di per sé un target delle operazioni terroristiche e criminali incrementando il livello di esposizione al rischio per il personale impiegato nella realizzazione dell’opera stessa, rendendo necessaria così un’importante azione di “securizzazione” delle diverse aree attraversate con l’impiego sia di forze armate locali sia di società private.
Tali considerazioni, che attengono al problema della governance globale, sulla quale la Via avrà un impatto rilevante, parte da una consapevole visione d’insieme delle minacce caratterizzanti l’area interessata, con particolare attenzione a Caucaso e Asia Centrale.
Il Caucaso infatti, per tutta la prima decade del 2000, era la principale area ad elevato rischio di jihadismo della ex Unione Sovietica. L’infiltrazione dell’islamismo radicale in Cecenia, in particolare con lo scoppio della Seconda Guerra (1999-2009), portò di fatto il conflitto da una base ideologica di stampo etno-nazionalista a una marcatamente jihadista. Nel contempo l’Islam radicale penetrava, seppur in maniera minore, anche in altre repubbliche caucasiche come il Daghestan e l’Inguscezia, approfittando della debolezza delle istituzioni locali dell’epoca: il jihad penetra dove lo Stato è debole o assente, un modus operandi già visto in contesti più prossimi all’Italia, come quello balcanico e libico.
Nella seconda decade del 2000 però la situazione nel Caucaso (e conseguentemente anche in Russia) iniziò a migliorare grazie all’implementazione di efficaci misure di contro-terrorismo e alle spaccature che hanno lacerato internamente l’Emirato del Caucaso, in parte provocate dall’infiltrazione del Daesh nella regione.
Ma ormai, oltre al Caucaso, risulta essersi aperto un nuovo fronte jihadista anche in territorio federale russo, come ha dimostrato l’attentato che lo scorso 3 aprile ha colpito la metropolitana di San Pietroburgo, nel quale persero la vita tredici persone e che ha sottolineato pericolosi collegamenti con gli ambienti jihadisti uzbeki e kirghisi.
Sono proprio tali collegamenti che provocano uno spostamento dell’attenzione a oriente, verso un altro settore strategico della Via della Seta, l’Asia Centrale.
In Asia Centrale sono Uzbekistan e Kyrgyzstan i due paesi ex sovietici attualmente a maggior rischio di espansione jihadista, sia sul piano ideologico sia per quanto riguarda il fenomeno dei foreign fighters. Alcune stime, datate tra il 2014 ed il 2015 per quanto riguarda il numero di combattenti per il jihad in Siria e Iraq al fianco delle milizie di Daesh, valutano 500 casi per Paese, anche se i numeri potrebbero essere più elevati. D’altra parte il vicino Tajikstan contribuiva al jihad con 386 foreign fighters tra il 2014 e il 2015, stimati essere tra 500 e 1100 al marzo 2017.
I gruppi islamisti maggiormente presenti nell’area sono Hizb ut-Tahrir (al bando in Russia, Uzbekistan, Kazakstan e in Kyrgizstan), il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (Islamic Movement of Uzbekistan – IMU) e l’Unione della Jihad Islamica (Islamic Jihad Union – IJU) che si separò dall’IMU nel 2001 a seguito del rovesciamento dell’emirato creato in Afghanistan dall’ex leader talebano Mullah Omar da parte della coalizione internazionale guidata USA.
Attualmente il Movimento Islamico dell’Uzbekistan risulta il più vasto e significativo gruppo terroristico operante in Asia centrale, è composto da combattenti di etnia uzbeka, tagika, kirghisa e uigura. Esso apparve per la prima volta nella città uzbeka di Namangan negli anni 90’ con il nome di Adolat (giustizia), radicandosi a seguito dell’instabilità politica ed economica lasciata dalla caduta dell’Unione Sovietica. L’IMU, inizialmente guidato da Tahir Yuldashev (ideologo) e Juma Namangani (leader militare e carismatico), si occupò di garantire un minimo di ordine all’interno dei territori di influenza e, in seguito, tentò di ottenere il controllo dell’Uzbekistan tramite la mobilitazione di un’insurrezione armata. Durante gli anni 90’ l’organizzazione si strutturò molto a livello internazionale guadagnando l’appoggio di vari gruppi islamisti in Medio Oriente, Turchia, Pakistan (dal quale ricevette fondi tramite i servizi di intelligence) e Afghanistan, tra i quali Al Qaeda (tramite Abu Musab al-Suri) e specialmente i talebani (entrambi i gruppi si rifanno alla scuola religiosa della Jamaat-i-Ulema). Vista la grande difficoltà di radicamento in Uzbekistan, l’IMU trovò riparo in Tagikistan, Afghanistan e in seguito Pakistan.
Lo scorso 11 maggio, intanto, il presidente uzbeko Shavkat Mirzyaev si recava in Cina per un incontro con il presidente cinese Xi Jinping. Tra le varie tematiche trattate pare vi sia stata anche quella legata alla sicurezza. Nulla di nuovo visto che entrambi i paesi fanno parte della Shanghai Cooperation Organization assieme a Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan. L’aspetto interessante è però legato alla crescente preoccupazione di Pechino per la minaccia uigura caratterizzante lo Xinjiang, un’altra area strategica attraversata dalla “Nuova Via della Seta” e a forte rischio sicurezza. E’ un dato che da questa regione risultano essere partiti numerosi volontari unitisi a Daesh in Siria e Iraq. In seguito all’offensiva anti-Daesh, molti di loro si sono infiltrati in Afghanistan, mettendo così in allarme sia Pechino che l’Uzbekistan.
La “Nuova Via della seta” è una complessa linea di punti che traccia un percorso che attraversa mezzo mondo, mettendo in collegamento ciò che questa metà del mondo ha di buono, ma permettendo anche a eventuali minacce di trovare una strada già indicata per raggiungere ogni punto della linea. È per questo motivo che la “Nuova Via della Seta”, importante iniziativa nel sempre più denso sistema di relazioni internazionali e booster economico di grande interesse, richiede che venga affrontato in maniera sistematica il nodo della sicurezza, quest’ultima intesa come condizione alla sua realizzazione ma anche come effetto della sua realizzazione.