Quanto accaduto domenica 1° agosto, gli attacchi alle chiese cristiane in Iraq, deve preoccupare molto. Se ancora di preoccupazione “ne avanza” per la situazione irakena. Storicamente in Iraq si è sempre registrata una compresenza di confessioni per cui, tra la stragrande maggioranza islamica, circa il 3% della popolazione si professava cristiano. Una fede non sempre facile da testimoniare, da parte di cattolici, soprattutto caldei, ortodossi, protestanti e nestoriani, ma sicuramente non in guerra con le altre fedi.
Finora, d’altra parte, anche il radicalismo islamico non aveva preso di mira “avversari religiosi”, indirizzando le proprie azioni contro gli occupanti, che “anche” sono non musulmani. “Anche”: tanto è vero che nel mucchio degli omicidi e dei rapimenti della guerriglia finiscono persone legate all’Islam, ma “occupanti”. L’avvio di agosto mostra un perfezionamento della strategia orientata alla promozione di un Iraq instabile, sprofondato nel caos, sotto il controllo del più pericoloso terrorismo internazionale islamico. L’obiettivo è allargare ogni possibile frattura, radicalizzare le differenze in sistemi di relazioni inconciliabili, scatenare la battaglia del tutti contro tutti dove almeno fino a poco tempo fa c’era tolleranza reciproca. Quando lo scorso settembre parlavo con Mons. Ibrahim Yussef Elias, a capo della diocesi caldea di Sulaimani di circa 400 cristiani, mi veniva orgogliosamente mostrata la nuova chiesa realizzata con il supporto del governo Kurdo. Da questa nuova costruzione, moderna e accogliente, si vedevano chiaramente le moschee scita e sunnita: una sorta di triangolo spirituale che testimoniava la tolleranza e la compresenza dei fedeli nella medesima città. Il giorno prima degli attentati ho avuto la fortuna di parlare con padre Nizar Semaan, sacerdote siriaco di Ninive in Italia per qualche settimana, che aveva già preso posizione nei mesi scorsi verso un irrigidimento del “nuovo Iraq” nei confronti dei cristiani, almeno nel processo di spartizione dei nuovi poteri. Quando ancora nel nostro dialogo non si prospettava una guerra tra le religioni. Oggi, e siamo ai primi giorni di agosto 2004, lo spettro della guerra di religione aleggia. Eppure, può ancora non essere così. Guerra tra fedeli in Iraq significa: guerra tra padri e figli, tra ricchi e poveri, tra uomini del sud e del nord, tra verdurieri e macellai, …. La strategia terrorista è quella di individuare sistematicamente ogni differenza, forzare ogni piccola crepa, introdurvi il kamikaze come un deflagrante grimaldello che allarghi il baratro della più piccola diversità sociale, per renderla un vuoto di relazione incolmabile, se non con il sangue della lotta. Nuovamente, la strategia è lucida e coerente per favorire il permanere di una “stabile incertezza”, di cui si scrive da tempo, di cui è soluzione residuale, ma unica efficace, il regno del terrore. Io continuo a credere, dunque, che a fronte di una necessaria risposta militare e di polizia coordinata tra iraqeni e alleati verso il terrorismo, il futuro del Paese non possa che ritrovarsi nello sforzo unito dell’intera popolazione, chiamata a respingere le profferte del mago Al-Zarqawi con gli strumenti della democrazia.
Marco Lombardi