E’ di pochi giorni fa la notizia diffusa da alcuni quotidiani, che riporta come le modalità di accoglienza degli immigrati utilizzate dalla città di Milano stiano per diventare un modello ed un caso studio considerato dal Parlamento Europeo, in occasione della redazione del “Rapporto di iniziativa strategico sulla situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio globale dell’UE alle immigrazioni” come cita La Repubblica.
In tutto questo vedo qualche difficoltà di definizione cognitiva e operativa:
- la prima difficoltà di definizione riguarda le plurime identità degli immigrati: una volta vengono chiamati migranti, un’altra profughi, rifugiati politici, richiedenti asilo, clandestini, immigrati irregolari, occupanti e via dicendo. Tutte queste molteplici attribuzioni creano di volta in volta, nel pubblico che ascolta, un’interpretazione dissonante con la precedente o con ciò che già loro conoscono, perché ognuno di questi termini rimanda ad una diversa rappresentazione del migrante (oltre che normativa) e del diverso, mettendo in risalto ora una caratteristica di vulnerabilità e un bisogno di aiuto, ora un tratto delinquenziale e criminale di difficile interpretazione. Questo fenomeno è un chiaro esempio di come una comunicazione sia essa istituzionale o mediatica non mira alla trasmissione resiliente di un messaggio comprensibile e diretto, quanto a una rappresentazione selezionata, orientata e fornita dalla fonte stessa della comunicazione;
- è certo di difficile comprensione determinare di quale tipo di accoglienza si stia parlando. Infatti, al di là di beni di prima necessità distribuiti da volontari appartenenti a diverse agenzie del terzo settore, per il resto l’immagine che emerge è quella di persone abbandonate a loro stesse, prima sui mezzanini della Stazione Centrale di Milano, poi in una struttura temporanea adiacente la Stazione Centrale, ad una lato della stessa stazione e poi presso i giardini davanti alla stazione. Si può forse parlare di accoglienza nell’emergenza, orientata a rispondere alla immediata domanda di sopravvivenza, non credo che si possa parlare di alto. Una passeggiata per la città, verso i veri punti critici della città, le periferie, le zone dimenticate per qualsivoglia motivo, quelle scomode, quelle lontane dal centro e dalla sua immagine di città internazionale mostrano un’idea molto differente di accoglienza, di inclusione o di integrazione: dimostrano ancora una volta che non esiste una linea comune di governance del territorio e delle dinamiche sociali, che abbia in sé quegli elementi di resilienza sociale, tanto cara perché argomento nuovo, ma poco declinata nei suoi aspetti di vissuto quotidiano. Si nota la difficoltà di utilizzare un pensiero lungimirante sulle attività da intraprendere, assecondando unicamente il principio “del demandare perché questo non è di nostra competenza.” Il rimando di competenze e l’affaccendarsi di diversi attori nella gestione di questi eventi non ha finora portato a nessuna reale attività operativa di accoglienza;
- l’Italia da Nord a Sud ha dimostrato non tanto di non essere un Paese accogliente, quanto di non sapere gestire né tanto meno negoziare i processi migratori che la coinvolgono. E questa vulnerabilità istituzionale è presente in più aspetti: dalle difficoltà di identificazione, alle procedure di riconoscimento, all’imposizione con la quale si trasportano persone verso luoghi dove per la maggior parte dei casi non saranno benvoluti e dove creeranno tensioni e conflitti sociali che però cadranno nell’oblio di una non gestione e non considerazione. E’ il caso per esempio dei flussi migratori provenienti dalla zona del Tarvisio, da sempre territorio di confine e di frontiera, che però attira poco interesse sia da parte delle istituzioni sia da parte dei media, perché ora, in estate, l’attenzione è rivolta verso le zone costiere, i luoghi turistici e le città che possono subire un maggiore impatto economico e di immagine per l’arrivo degli immigrati. Infatti le zone turistiche (e anche l’attentato al Museo del Bardo ce lo ricorda) sono esse stesse da considerarsi “infrastrutture critiche” governate sempre dai medesimi principi di resilienza e vulnerabilità. Ed è proprio la classificazione di infrastrutture critiche, insieme al tema del conflitto sociale e del disordine urbano, a subire il più vasto cambiamento teorico e pratico di questi ultimi tempi. Infatti oggi che cosa è una infrastruttura critica? Di certo non solo le centrali elettriche, gli ospedali, le centrali di Polizia, gli aeroporti o le stazioni ferroviarie. Stiamo quasi inconsciamente assistendo ad una trasformazione nella percezione del concetto di infrastruttura critica e a una sua forzata estensione che richiederà, in un futuro non molto lontano, la presa in carico della sua sicurezza e prima ancora di una analisi accurata delle sue vulnerabilità presenti e latenti. Gli stessi giardini della Stazione centrale a Milano possono essere inclusi nella categoria infrastrutture critiche, fondamentalmente perché ne presentano le stesse caratteristiche: vitalità della loro attività, interesse diffuso per diversi gruppi sociali, potenziale collasso del loro sistema con effetti negativi su altri sistemi a loro connessi, difficoltà di gestione in caso di eventi multipli o con effetti a cascata;
- le dinamiche che si sono venute a creare fra l’Italia, l’UE e alcuni singoli Stati europei dimostrano che la politica comune europea sull’immigrazione ha mancato di lungimiranza e soprattutto di considerare le specificità nazionali degli Stati membri e le disponibilità a demandare la politica, il governo e il controllo del territorio ad agenzie extra nazionali. Non si tratta unicamente di promuovere una gara fra il Paese più accogliente e ben disposto verso gli immigrati e quello invece più refrattario all’accoglienza di stranieri. E’ una questione di legislazione mancante in materia, di prassi legislative e operative mancanti e di altrettanto mancanti tutele per gli immigrati. Inoltre questo è un fattore legato a un aspetto che pochi citano: la volontà latente di non demandare l’ingresso di cittadini stranieri extra europei ad autorità altre che non siano quelle nazionali. In questo contesto si apre il dibattito fra sicurezza del territorio, difesa nazionale e difesa dei confini nazionali (e la sospensione ad intermittenza del Trattato di Schengen ce lo dimostra), barriere che seppur sospese in ambito europeo, votando per la libera circolazione di persone e merci, segnano comunque dei valichi culturali e politici che non possono essere non considerati;
- è poi mancata anche una reale considerazione della resilienza urbana e della valutazione di adeguatezza del tessuto sociale presso il quale i migranti dovevano o dovranno essere ospitati. Non è raro infatti trovare notizie riguardanti tensioni e scontri all’arrivo degli immigrati in piccoli contesti, anche se da altri il loro arrivo è stato salutato come un nuovo boom demografico. La questione però è più complessa della semplice riflessione “migranti sì, migranti no”, perché se anche venissero soddisfatti le esigenze primarie e le necessità mediche, che cosa ne sarà di queste persone? Soprattutto di coloro che rifiutano l’identificazione e quindi non possono accedere ad altri Paesi dell’Unione Europea? Che ne sarà di loro una volta che arriverà l’inverno? Continueranno a dormire sugli scogli come a Ventimiglia o nel retro delle Stazioni di Milano o Roma? O forse assumeranno le sembianze di un viandante, di una persona in continuo cambiamento, ma senza pace o porto a cui arrivare?
Parlare di accoglienza a mio modo di vedere implica aspetti ben più preponderanti: il fatto per esempio di voler ricevere aiuto ed essere disposti ad accettare i termini e le condizioni per quell’aiuto, perché se è vero che a breve termine l’aiuto umanitario deve essere necessariamente senza alcun ritorno, nel lungo periodo e nella maggior parte dei casi esso richiede una contropartita, che può essere data solo da un sistema di regole e prassi definite.
Sarebbe importante in questo contesto ripensare anche alle forme sempre più aliene che la solidarietà sociale sta assumendo in questi ultimi anni.
Inoltre, se da un lato è vero che l’immigrazione è parte costante della vita umana e che in realtà l’umanità è costituita da un groviglio di identità e nazioni, è anche vero che si dovrebbe comprendere e analizzare se questo fenomeno è sostenibile in termini sociali ed economici.
Perché non bisogna dimenticare che queste ondate immigrazione si situano all’interno di uno contesto economico di gran lunga vulnerabile e dai risvolti ancora sconosciuti.
Quello quindi che sembra apparire come lo scenario più attendibile è una sorta di cronicizzazione vulnerabile delle modalità di accoglienza e di gestione dei fenomeni migratori, affetta da un forzato localismo del qui ed ora che non avrà nessun effetto, se non quello di evidenziare sempre più la mancata resilienza istituzionale, politica e sociale, mettendo ancora di più in luce le molteplici vulnerabilità di un sistema Paese o Unione Europea che non pensa e agisce in termini di resilienza per le azioni da intraprendere, di adeguatezza per i criteri da utilizzare nella pianificazione e progettazione di attività di accoglienza e gestione dei flussi migratori e sostenibilità in termini di utilizzo e distribuzione delle risorse economiche, politiche e sociali.