Il naufragio della Costa Concordia è un caso di estremo interesse per chi si occupa di crisis management, soprattutto sul piano comunicativo e procedurale. La prima pagina del Corriere della Sera di oggi, lunedì 16 gennaio, indica con chiarezza l’eroe (Il Commissario di Bordo salvato con la gamba spezzata) e l’infingardo (Il Comandante scappato): questa sintesi celebra la storia secondo i canoni richiesti dall’opinione pubblica.
Ancora una volta, questa opinione pubblica si è formata con il contributo volontario dei racconti in tempo reale delle vittime e dei soccorsi che, ancora prima che il fatto potesse considerarsi concluso nella concatenazione degli eventi, avevano cominciato a orientare il senso dei lettori. Così immediatamente si è sentito parlare, con piglio critico e indignato, di baristi al comando di scialuppe, annunci di guasto elettrico, tempi lunghi nel dare l’allarme, ecc. Fatti veri – non argomento il dato di realtà – ma non necessariamente scorretti nel contesto delle procedure che potevano essere seguite. Ne consegue la necessità di attendere per giudicare la gestione dell’emergenza e, soprattutto, avere la buona coscienza di depurare le informazioni dalla visione “oggettivamente soggettiva” (“sided”) che ogni testimone ha. Tutti consapevoli che in questo né l’opinione pubblica può giudicare, né il giudice può sempre accogliere l’opinione pubblica.
Sul piano più specifcio del crisis management emerge chiaramente la problematicità – che ormai deve essere affrontata – dell’impiego delle procedure e del limite intrinseco che hanno, se non inserite in un contesto di “consapevolezza critica” richiesta.
Per ogni operatore in emergenza la procedura è un’ ancora di salvezza: essa permette di ridurre l’incertezza propria della crisi, per prendere decisioni fondate sull’analisi puntuale della situazione, in un certo momento e in un certo luogo, al fine di conseguire un esito. E’ come se si cominciasse a salire una scala in cui ogni scalino si disvela, tra le nubi, a ogni passo, avendo la certezza che essa – comunque – mi conduce “oltre” la posizione critica in cui mi trovo. Insomma, mi permette di decidere in base al “qui e adesso” per raggiungere un futuro – migliore – la cui vista mi sfugge! Per questo le procedure incorporano, organizzandola, tutta la conoscenza pregressa di eventi simili che intendono gestire.
Nel naufragio in questione si sono seguite delle procedure. Pertanto se diamo per scontato l’utilità di esse, emergono con chiarezza tre dimensioni problematiche:
- la criticità intrinseca della procedura: come già scritto l’utilità della procedura è di svilupparsi mano a mano proponendo al manager (comandante) una successione di opzioni fondate su una valutazione del “qui e ora”. Tali opzioni si dipanano secondo un tempo che è scritto dentro alla procedura medesima e sono conseguenza di una scelta. Sulla scelta pesa la competenza, ma sul tempo pesano i caratteri specifici dell’emergenza che si vuole governare che… potrebbe anche non coincidere con quello della procedura. In questo senso si può parlare, semplificando, di “escalation” di un evento. Pertanto, la comprensione di una scelta – che si esprime nelle conseguenze – può avvenire solo avendo compreso il tempo della procedura e la valutazione della medesima scelta può avvenire avendo compreso la distanza eventuale tra questo tempo e quello – non controllabile – dell’emergenza;
- la precedura come relazione: spesso queste catene decisionali hanno come obiettivo di (ri-)organizzare cose, uso di strumenti, comportamenti senza tenere conto che esse comunque orientano l’agire di persone: quando seguo una procedura anche il mio modo di entrare in relazione con gli altri cambia, perché cambia il mio ruolo e quello degli altri, perché mutano gli obiettivi del mio agire, ecc. Ma questa dimensione relazionale non è mai tenuta esplicitamente in conto quando la medesima procedura si costruisce, come se essa si calasse in una realtà in cui le relazioni sono assenti. Invece, quante volta l’emergenza si incaglia nella gestione delle persone? Spesso tante e tutte insieme preoccupate?
- la questione meta-procedurale: per quanto detto al punto precedente emerge come ogni procedura sia costruita “pensando in verticale” o “stand alone”, per usare un termine informatico. Cioè, essendo altamente specializzata, ogni procedura vive e si risolve in uno specifico contesto disciplinare: c’è la procedura per dare l’allarme, per calare la scialuppa, ecc. Tale autonomia è utile, perché semplifica – definendolo al meglio – il lavoro di ciascuno attore che si ritrova nel suo ruolo. Ma al contrario, tale autonomia non sottolinea – anzi evita che si presti attenzione – l’inevitabile relazione che gli effetti delle procedure hanno reciprocamente. In una situazione di emergenza, “salvatori” diversi applicano procedure specifiche a un campo comune (l’emergenza è la medesima per tutti) e alle medesime persone (che condividono l’essere vittima dell’emergenza). In realtà, dunque, le procedure non sono affatto indipendenti ma sono assolutamente inter-dipendenti generando una sorta di meta-procedura che non è mai stata razionalizzata, di cui tantomeno alcuno se ne occupa.
Il naufragio della Costa Concordia mette in luce tutte queste questioni problematiche e, per il futuro, si pone come un caso interessante per mettere a punto approcci sempre più efficaci alla gestione di emergenze come queste ma non solo. Nell’immediato, in ogni caso, chiede a chi è chiamato a valutare le responsabilità di agire con cautela e senza fretta, per considerare – anche sul piano metodologico – le note problematiche qui evidenziate, al fine di conseguire una valutazione di giustizia, che può essere anche non coincidente in maniera perfetta cone gli indirizzi affrettati delle opinioni mediatizzate.
Marco Lombardi