Il colpo di stato militare del primo febbraio ha riportato il Myanmar nel caos, nella violenza e nell’instabilità degli anni bui delle precedenti dittature. Con il crollo del sistema sanitario ed economico, il drastico aumento degli scontri armati e l’alta partecipazione agli scioperi del Movimento di Disobbedienza Civile, il Paese è ormai paralizzato da oltre sei mesi.I dati e le previsioni dei diversi organismi internazionali parlano chiaro e descrivono un paese al collasso: la Banca Mondiale stima una contrazione del 18% dell’economia nazionale che, aggiunta all’impatto socio-economico della pandemia, porterà 25 milioni di persone, il 48% della popolazione, a vivere sotto la soglia di povertà entro il 2022, di cui 6.2 milioni in condizioni di povertà estrema.
Inoltre, la brutale repressione delle proteste democratiche, seguita alla presa di potere dell’esercito birmano, ha generato la formazione di numerose milizie in difesa della popolazione, presenti in tutto il Paese, sotto il nome di Forze di Sicurezza del Popolo (People Defence Force – PDF). La resistenza armata, che agisce principalmente attraverso attacchi mirati ai luoghi simbolo del potere militare, si è inserita all’interno di un contesto altamente militarizzato e caratterizzato dalla decentralizzazione della legittimità politica e della capacità di governare i territori di frontiera. Al conflitto etnico periferico, che dura ininterrottamente da oltre settant’anni, si è aggiunta la guerriglia urbana del PDF.
L’esercito del Myanmar, chiamato Tatmadaw, ha risposto con bombardamenti aerei, negli Stati Chin, Kachin e Karen, colpendo scuole, ospedali e luoghi religiosi, e con l’utilizzo della storica strategia dei “Quattro tagli” che mira a bloccare il sostegno ai gruppi armati, terrorizzando e uccidendo le popolazioni locali. I conflitti armati, oltre ad aver raggiunto le città, sono ripresi anche in quei territori che per decenni hanno vissuto in una condizione di pace e stabilità, come lo Stato del Chin e del Kayah. Gli scontri e le violenze si stimano abbiano portato, dal primo febbraio ad oggi, ad oltre 200.000 sfollati interni, da aggiungere alle 500.000 persone già presenti nei campi profughi nel Paese, a più di 930 morti ed oltre 6.000 arresti di natura politica.
La terza ondata di Covid-19, che ha colpito il Paese da inizio luglio, ha peggiorato ulteriormente lo scenario nazionale. Con la maggior parte degli ospedali occupati dai militari, con i medici, infermieri e volontari costretti a lavorare nella clandestinità perché presi di mira, torturati e uccisi dai soldati, il virus si sta diffondendo rapidamente in tutto il Myanmar. I forni crematori non riescono a reggere il ritmo imposto dai decessi e le famiglie sono costrette ad immensi sacrifici anche solo per ottenere una bombola di ossigeno. Tutto questo in un Paese che già prima del golpe militare e della pandemia si trovava negli ultimi posti della classifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in relazione all’efficienza del sistema sanitario. Si prevedono almeno 400.000 morti.
La crisi in Myanmar è una ferita che sta sanguinando profondamente, causando la disastrosa emorragia interna sopracitata, e se non medicata in tempo infetterà inevitabilmente il resto del corpo. In questo caso, il paziente, il continente asiatico, ha un sistema immunitario quantomeno in forte difficoltà e con molteplici lacerazioni: dalla delicata situazione afgana ai meno conosciuti conflitti a bassa intensità in Thailandia (Patani), Filippine (Mindanao) e Indonesia (Papua). In aggiunta, il Myanmar rappresenta, oggi più che mai, una pedina all’interno di un gioco molto più grande di lei, l’attuale guerra ibrida, dove la Cina e la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti rappresentano i principali interpreti e schieramenti.
Nelle reazioni internazionali al golpe birmano si trovano le contraddizioni, gli equilibri precari e le strategie delle principali potenze mondiali. Quando l’Europa e gli Stati Uniti si lasciano guidare da sterili dichiarazioni, riflettendo sempre di più la loro incapacità di agire in contesti complessi, vicini o lontani dalle proprie frontiere, la Cina e la Russia proseguono nel definire un’alternativa al modello occidentale democratico. Proprio quest’ultimi rappresentano l’ago della bilancia nella risoluzione o il peggioramento dell’attuale instabilità sociopolitica del Myanmar. Con approcci differenti, se non diametralmente opposti, i due giganti avanzano ininterrottamente verso il medesimo obiettivo.
La Cina si è mossa con il suo rigore matematico, cercando di evitare azioni avventate che attirassero l’attenzione internazionale. Un chiaro esempio è rappresentato dal fatto che solamente dopo quattro mesi dal golpe la Cina ha ufficialmente riconosciuto il ruolo di leader politico di Min Aung Hlaing, il Comandante in capo del Tatmadaw, attraverso un comunicato della sua ambasciata nel Paese. Tuttavia, l’effettiva strategia cinese si sviluppava su altri livelli, non dettati dalle tempistiche della diplomazia.
L’attuale obiettivo della Cina è la messa in sicurezza del territorio di frontiera e delle aree lungo le quali si sviluppano i suoi investimenti economici. Ciò sta avvenendo attraverso la costruzione di una recinzione elettrificata al confine con il Myanmar, nella provincia dello Yunnan, attualmente estesa per 500 km, in modo da contrastare eventuali flussi migratori illegali. Contemporaneamente, la Cina, per garantire la protezione dei propri investimenti in un contesto violento come quello birmano, sta interagendo con tutte le fazioni coinvolte: da una parte il Tatmadaw, che dipende dal potere di veto cinese all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e dall’altra parte i gruppi etnici armati nel nordest del Paese, i quali dipendono dalla Cina per l’ottenimento delle dosi di vaccino anti Covid-19. La distribuzione dei vaccini ha anche come obiettivo quello di sedare il sentimento anticinese che è esploso in tutto il Myanmar dal colpo di stato. In questo modo la Cina gioca un ruolo chiave per tutti gli attori interni e, allo stesso tempo, prepara il terreno per presentarsi come l’unica vera soluzione, politica, economica e diplomatica, all’oramai inevitabile isolamento internazionale della giunta militare.
I vaccini cinesi iniziano ad arrivare anche a Nay Pyi Taw, la capitale birmana, e questo, oltre che a rafforzare la dipendenza dei militari alla Cina, garantisce un’ulteriore espansione degli accordi economici bilaterali. Niente è gratuito e l’attuale fragilità politica del Myanmar si presta perfettamente alle strategie espansionistiche di Pechino.
Tuttavia è la Russia che a livello diplomatico ha supportato maggiormente la giunta birmana. Oltre ad aver inviato il proprio viceministro della Difesa, Alexander Fomin, a partecipare alla cerimonia della Giornata delle forze armate birmane, il 27 marzo, la Russia è stato l’unico Paese ad aver invitato ufficialmente una delegazione birmana, guidata direttamente da Min Aung Hlaing, dopo il colpo di stato del primo febbraio. Segnando la prima missione diplomatica internazionale della giunta.
Anche per Mosca il Myanmar è un’occasione da non perdere. Infatti, secondo i dati riportati da SIPRI, tra il 2009 e il 2019 il Myanmar ha importato il 43% di armi proprio dalla Russia, percentuale che è destinata ad aumentare inevitabilmente nel corso dei prossimi anni. Nonostante questo, il legame tra la Russia e la giunta non deve essere inquadrato esclusivamente dal punto di vista commerciale, ma soprattutto in relazione alla volontà del Cremlino di recuperare il ruolo geopolitico, perso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, in Africa come in Asia, e il Myanmar potrebbe proprio rappresentare la porta di ingresso nel Sudest asiatico.
L’8 giugno la compagnia telefonica norvegese Telenor ha annunciato che venderà la sua sede birmana, insieme ai dati di 18 milioni di utenti nazionali, a M1 Group, un’azienda libanese vicina ai militari. M1 Group è stata fortemente criticata per la sua presenza in paesi autoritari come Siria e Iran. Un chiaro segnale di allarme per i milioni di cittadini che da più di sei mesi si organizzano per resistere alla repressione militare. In Myanmar le informazioni che si possono ottenere dal registro telefonico, come le persone che hai contattato e i luoghi in cui sei stato, fanno la differenza tra la vita e la morte. Così l’Europa abbandona lentamente il Myanmar e, voltando le spalle ai suoi stessi valori, affida sempre di più il destino della nazione ai paesi autoritari.
È evidente come la crisi in Myanmar non sia una semplice questione interna, ma coinvolga gli equilibri mondiali. In gioco non c’è solamente il destino della popolazione birmana, ma, soprattutto, il ruolo globale dell’Occidente, delle democrazie.