Da poche ore il portavoce del dipartimento della Difesa americano, John Kirby, ha reso pubbliche alcune informazioni fornite dall’intelligence statunitense che sostengono il probabile utilizzo di un falso video, da parte della Russia come pretesto per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Tale intenzione sarebbe stata confermata poco dopo al New York Times anche da un funzionario dell’intelligence britannica.
Secondo il Dipartimento della Difesa verrebbe mostrato un finto attacco dell’esercito ucraino contro obiettivi in territorio russo, o contro persone che parlano russo e che si trovano nelle zone dell’Ucraina dove l’influenza russa è più forte. Sarebbero incluse inoltre scene molto violente, di esplosioni, cadaveri, edifici distrutti.
Al momento non vi sarebbe nulla di confermato, lo stesso Kirby ha suggerito di prendere con molta cautela tali informazioni, anche se giudicate credibili.
Qualora tutto ciò trovasse conferma nei prossimi giorni, non sarebbe in realtà una novità da un punto di vista politico, strategico-militare. L’utilizzo di informazioni di natura visuale e la creazione dei cosiddetti pseudo-eventi (o immagini simulacro), fatti inventati dalla rivoluzione grafica, il cui intento è creare un avvenimento ad arte proprio per essere pubblicato, sono elementi ricorrenti nella storia delle guerre, più volte registrati ed analizzati, anche con riferimento specifico ai precedenti conflitti bellici.
Di seguito alcuni esempi.
Il primo, il cui contesto fa riferimento alla lotta epica tra repubblicani e franchisti, anno 1936. Riguarda la fotografia della “morte di un miliziano”, di Robert Capa, forse l’immagine più nota al mondo scattata dal fotoreporter, raffigurante un soldato repubblicano colto nell’attimo in cui viene colpito da un proiettile. Tale fotografia è stata da sempre considerata la prima istantanea di “morte dal vivo”. Peccato che sembrerebbe invece un falso. Per il cronista sudafricano O’Dowd Gallagher, infatti, Capa si sarebbe recato presso un campo di esercitazioni scattando una serie di fotografie “in movimento”, tra cui quella del miliziano.
Il secondo esempio è la foto in assoluto più celebre della storia americana, “Old Glory Goes Up On Mt. Suribachi, Iwo Jima” di Joe Rosenthal. Ritraeva i marines americani che alzano le stelle e strisce su una remota isola del Pacifico (1945), simbolo dell’eroismo degli Stati Uniti impegnati contro i giapponesi ancora asserragliati sulle isole pronti a difendersi. La foto, su approvazione dello Stato Maggiore dell’esercito statunitense, fu pubblicata su tutti i giornali del Paese nel febbraio 1945. L’America aveva vinto la guerra. La bandiera era stata piantata. Eppure, la foto venne scattata prima, in realtà, della fine della terribile battaglia. Non è ancora chiaro chi fossero veramente i marines ritratti.
Facendo dei salti storico-temporali, come non ricordare la denuncia del Bureau of Investigative Journalism in merito alle immagini false pubblicate da Martin Wells, video editor e autore responsabile dei filmati di propaganda, attribuiti ad Al Qaeda, condotti negli scenari di guerra iracheni.
Dalle parole dello stesso Wells:
“Producevamo finti filmati di propaganda di al Qaeda, secondo regole e tecniche precise; dovevano durare dieci minuti ed essere registrati su dei cd, che poi i marines lasciavano sul posto durante i loro raid, ad esempio durante un’incursione nelle case di persone sospettate di terrorismo. L’obiettivo era di disseminare questi video in più località, possibilmente lontano dal teatro di guerra, perché scoprire filmati di quel genere in località insospettabili, avrebbe aumentato il clamore e l’interesse mediatico”
Una cosa simile si verificò con il “famoso” discorso, trasmesso in diretta nazionale, di Nayirah, ragazza kuwaitiana di 15 anni, che denunciò pubblicamente le atrocità commesse dall’esercito iracheno.
Anche in questa vicenda, discorso e relative testimonianze si rivelarono completamente false. Tutta la vicenda venne architettata da una società di pubbliche relazioni, la Hill & Knowlton, a favore di un intervento armato americano contro il regime di Saddam Hussein.
Questa “costruzione del irreale” emerse solamente nel 1992, a conflitto concluso, dopo la messa in onda di Nayirah, vista da circa 53 milioni di americani.
Al di là dei singoli casi, il punto sociologicamente rilevante è racchiuso in due parole che ben descrivono la complessità delle situazioni appena descritte: misinformation e disinformation.
Riprendendo le parole dello scrittore Toba Beta, “la misinformazione è un inganno. La disinformazione è un imbroglio”.
Misinformazione e disinformazione possono essere entrambi pericolose, ma quest’ultima ha un potenziale molto più “distruttivo”. Ad, esempio può impedire al pubblico dei media di discutere le questioni, influenzando notevolmente le decisioni, secondo tre modalità:
-fornire false informazioni, a volte accoppiate con analisi e dati ingannevoli, rivolte a persone che si trovano a prendere decisioni che sono contrarie ai loro reali desideri o interessi (es. campagne elettorali);
– favorire la polarizzazione, spingendo deliberatamente le persone a adottare opinioni e credenze estreme che non lasciano spazio al compromesso;
-allontanare da tutte le fonti di informazione gli utenti, rendendoli meno informati e meno disposti a partecipare al dibattito pubblico.
Queste tre dimensioni prendono corpo in particolar modo all’interno piattaforme sociali e digitali, capaci ora di profilare i loro utenti, raccogliere informazioni, di carattere personale, dominare gli ambienti politici e internazionali, orientare le strategie militari, incidendo sull’inizio e la fine di un conflitto.
Le tecnologie dell’informazione sono dunque strettamente legate a quelle belliche, si sviluppano in maniera parallela, forniscono nuovi modi di vedere il conflitto che diviene via via una esperienza sempre meno raccontabile e sempre più ermetica.