Al tempo delle cosiddette Primavere Arabe avevamo cominciato a scrivere del Ring of Fire, definendo così l’area mediterranea che veniva descritta come un anello fiammeggiante di conflitto perdurante. A seguito di una missione in Libia nel 2013, dipingevamo uno scenario di frammentazione e dissoluzione statuale probabile, fenomeno che è poi stato accelerato dalla penetrazione del Califfato.
La Libia, dunque, ma tutta la cosa Nord Africana era area di grande instabilità e potenziale minaccia per l’Europa da anni. Ma non si è voluto considerarlo.
Oggi l’area torna di attualità sulla scia della propaganda di IS che, prima nel Black Flags Books di novembre intitolato a Roma, poi in Islamic State 2015 di gennaio dettaglia operativamente le sue intenzioni per la conquista di Roma, già simboleggiata nella famosa copertina di Dabiq con bandiera nera sventolante su San Pietro. Certamente si tratta di propaganda quando si parla di missili che possono colpire l’Italia (per ora IS potrebbe disporre di vettori con un raggio solo tra i 75 e i 300km, per gli Scud) e quando si teorizza l’apertura di un fronte sud dalla Libia, con sbarchi di jihadisti sulle coste appoggiati da una colonna infiltrata. Ma anche se è propaganda questo messaggio chiarisce bene le intenzioni verso le quali sono tesi gli sforzi operativi di IS, e orienta l’azione di zombie e lupi solitari pronti a colpire nel nostro Paese.
Quindi la minaccia è comunque reale.
Discutere se avviare un attacco militare con IS in Libia è pertanto, oggi, opportuno.
Il Califfato è saldamente presente in Nord Africa, consolidato da tempo a Derna, ormai a Sirte ma, per chi a Tripoli è stato, le bandiere nere nella capitale sono già comparse e il cerchio attorno a essa si sta stringendo. Così come la chiamata alla condivisione dell’impresa da parte di IS per tutti i marchi fratelli, a cominciare da AQIM, è stata fatta e ben forte.
Ed è anche opportuno ricordare che da anni ormai il flusso andata e ritorno di combattenti per IS da queste terre è denso e costante. Se IS è Stato Islamico nel Califfato, magari in Nord Africa è ancora solo Movimento, ma radicato e in via di istituzionalizzazione. D’altra parte, questa situazione è ancora una volta figlia dei ritardi europei, che avrebbero potuto con minori danni, minori rischi, minori vittime tra la popolazione intervenire prima in Libia, prima che la situazione raggiungesse questo punto: una opportunità è andata perduta.
Intervenire oggi in Libia, dunque, è molto più rischioso che averlo fatto ieri. Ma più urgente.
E’ ovviamente rischioso perché la situazione ormai deteriorata della Libia rende incerto ogni schieramento locale che anche una coalizione internazionale sul campo andasse a scegliere per appoggiarlo, favorendo inevitabilmente una frammentazione esplosiva tra gli stessi libici.
Una supposta coalizione internazionale se si basasse su quella che combatte IS nel Califfato, incorporerebbe tante incertezze che le sono proprie e che potrebbero emergere proprio in Libia dove, da subito dopo il post Gheddafi, si incrociano interessi qatarini e turchi: come conciliare questi, da tempo coltivati, con per esempio quelli italiani e degli altri paesi?
E poi un intervento sotto l’egida delle Nazioni Unite: dunque un consiglio di sicurezza che legittima questo nuovo conflitto dovendolo negoziare con gli interessi della Cina nel continente africano, da sempre fondati sull’esistenza dei conflitti, e con gli interessi della Russia rispetto alla faccenda Ucraina: forse che i due paesi non farebbero pesare sul negoziato le loro richieste?
Ma per concludere, sul piano politico: già si vede l’Italia proposta a leader dell’intervento squassata dalla irresponsabilità politica di partiti e movimenti che andrebbero a minacciare la caduta del Governo moltiplicando la vulnerabilità Paese in maniera esponenziale. Ma coerenti con i propri interessi.
La situazione politica complessiva rende incerta la concreta possibilità di costituire una coesa forza militare internazionale di intervento.
Pertanto si perderà probabilmente una seconda occasione.
Sul piano operativo è bene chiaro che le armate di IS possono essere facilmente spazzate da una coalizione, ma anche solo dall’Italia. La giusta strategia con le armi giuste non può che militarmente battere il Califfato.
Una prima conseguenza sarebbe quella dell’aumento del rischio terrorismo in Europa, ma confinato all’azione – molto pericolosa egualmente – di lupi solitari e di zombie che potrebbe essere mitigata dalla capacità di dialogo mantenuta aperta con l’Islam non radicale: IS sta sulle scatole anche a tanto Islam, comprese alcune branch di AQ. D’altra parte questo rischio di terrorismo non aumenterebbe in maniera significativa rispetto a quello che già si correrebbe avendo uno Stato Islamico stabilizzato in Libia.
Ma è più importante sottolineare che la penetrazione dei jihadisti in Nord Africa ci sta dando l’occasione per batterli militarmente almeno in quest’area. Un intervento, infatti, che spazzasse via il Califfato dalle terre iraqene lascerebbe un enorme vuoto: tolto il Califfato chi occupa e governa quel deserto petrolifero? Ricordiamoci che IS ha realizzato il programma proposta da Zawahiri nel 2066, occupando il vuoto di potere lasciato in Iraq. Ora cancellando il Califfato quale entità lo sostituisce: l’Iraq, l’Iran, la Turchia, il Kurdistan,…? Non c’è risposta!
Se è militarmente possibile abbatter il Califfato in Iraq è ora politicamente inopportuno perché non sapremmo chi ne andrebbe ad occupare il posto.
Al contrario la Libia ci sta dando una grande occasione: cancellare IS dalla costa africana per rintanarlo nei deserti iraqeni dando un sonora battuta militare che suonasse forte sul piano simbolico. Qui non avremmo i medesimi problemi di governance dell’Iraq e la possibile e auspicata sconfitta militare di IS permetterebbe un rilancio della costa africana.