Gli scontri di viale Jenner e la Fitna islamica nel milanese – by Giovanni Giacalone

Venerdì scorso 3 agosto, durante la Jumma (preghiera tradizionale del venerdì accompagnata da sermone) presso l’area dell’ex Palasharp di Milano sono emerse forti incomprensioni che hanno portato a duri scontri verbali tra i fedeli della corrente legata al direttivo salafita del Centro Culturale Islamico di viale Jenner 50 e un gruppo di “dissidenti” legati all’imam egiziano Elnadi Abdelghani Im Elbeltagi, licenziato dai vertici di viale Jenner con l’accusa di aver cercato di sostituirsi al direttivo.

I problemi sono proseguiti nel tardo pomeriggio quando, intorno alle 18:30, Abdelghani e una trentina di seguaci hanno forzato la porta d’ingresso del centro islamico di viale Jenner e si sono introdotti all’interno dando il via all’occupazione dello stabile (anche se a loro dire volevano entrare per poter pregare).

L’azione si è svolta tra grida e spintoni al punto che i residenti hanno chiamato le forze dell’ordine che sono dovute intervenire per riportare la calma e liberare l’edificio.

Domenica però la situazione è nuovamente degenerata, questa volta attorno alle ore 22 quando, in seguito a una lite verbale tra sostenitori delle due fazioni in lotta, si è passati alle mani e al termine della zuffa due egiziani di ventotto e quarantacinque anni sono finiti al pronto soccorso del Sacco e del Fatebenefratelli.

Le due versioni

Alla preghiera dello scorso venerdì erano presenti circa 3.500 fedeli e ad un certo punto alcuni fedelissimi di Abdelghani hanno iniziato a gridare “ladri” riferendosi al direttivo del Centro di viale Jenner.

La rabbia era generata dal recentissimo licenziamento (31-7-2018) dell’imam Abdelghani, ritenuto dai suoi seguaci un “sapiente” e una grande figura carismatica, nonché “colui che ha smascherato il direttivo” (non è chiaro su cosa).

Il direttivo di viale Jenner ha però fornito un’altra versione: Abdelghani, “spinto dal desiderio di sostituirsi al direttivo, avrebbe messo in cattiva luce un altro egiziano, il 53enne Ibrahim Youssef Farag Abdelhamid, subentrato ad interim per statuto come presidente della moschea.

A questo punto il direttivo sarebbe stato costretto a rimuovere Abdelghani dal proprio incarico con tanto di lettera formale. [1]

Le problematiche ideologico-politiche

In realtà alla base del litigio sembrano trapelare dissidi interni collegati a differenti visioni ideologico-politiche ma anche relative al controllo del luogo di culto.

Secondo quanto riferito da autorevoli fonti il direttivo di viale Jenner aveva cacciato Abdelghani Elbeltagi in seguito a una sua apertura nei confronti del Caim, (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) che include una ventina di associazioni islamiche dell’area milanese e più volte finito nel mirino dei media nazionali per la vicinanza ideologica all’area dei Fratelli Musulmani (caso già trattato da Itstime nel 2015 in un’analisi sull’Islam militante a Milano). [2]

Il centro islamico di viale Jenner è notoriamente su posizioni salafite e non fa parte del Caim. Il direttivo potrebbe dunque aver temuto una plausibile infiltrazione all’interno dell’Istituto da parte dell’area vicina alla Fratellanza, magari con lo scopo di prenderne il controllo in un momento in cui l’Istituto si trova in una fase delicata di riorganizzazione causata dall’assenza del suo storico direttore, Abdelhamid Shaari.

La “fitna” italiana

Gli scontri di viale Jenner fanno emergere ancora una volta il problema della discordia all’interno della vasta comunità presente in territorio lombardo (ma più generalmente in Italia), con una pluralità di etnie, sigle ma anche di posizioni ideologico-dottrinarie spesso differenti e non sempre compatibili.

Posizioni che frequentemente inglobano ideologie politico-religiose dei propri paesi d’origine, a loro volta riversate nei rispettivi centri islamici. Lo si è visto con le iniziative a favore dei Fratelli Musulmani egiziani e a favore di Erdogan alle quali hanno aderito anche diversi membri del Caim; ci sono state le manifestazioni degli islamisti del Bangladesh a sostegno di Molla Abdelqader, leader della Jamaat e-Islami, giustiziato nel dicembre del 2013 dalle autorità di Dacca con l’accusa di crimini di guerra, genocidio e alto tradimento. Esecuzione che aveva portato il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, a pubblicare un filmato dove invocava il jihad contro il governo bengalese. [3]

Lo stesso centro islamico di viale Jenner è stato in più occasioni al centro di inchieste di estremismo e terrorismo internazionale, in particolare per quanto riguarda rapporti con imam vicini a gruppi come la Gamaa al-Islamiyya egiziana.

Non bisogna poi dimenticare gli scontri segnalati in più occasioni a Milano, durante le cerimonie del Ramadan del 2014, tra sostenitori e oppositori di Mohamed Morsi ma anche altre tensioni tra sufi e salafiti.

Tali ideologie e giochi di potere legati ai paesi d’origine dei musulmani residenti a Milano (più volte definita come “città-laboratorio dell’Islam in Italia”) non fanno certo bene a tutti quei fedeli che vorrebbero lasciarsi certe problematiche alle spalle, sperano di potersi recare al centro islamico per pregare, senza dover finire in mezzo a dispute del genere, dispute che sono spesso legate a dinamiche di controllo dei vari luoghi di culto, dei piccoli feudi da espandere.

Rappresentatività

I recentissimi fatti di viale Jenner portano alla luce un altro problema più volte discusso, ma ancora oggi senza una soluzione concreta e cioè quello della rappresentatività. Chi ha il diritto di autoproclamarsi “rappresentante ufficiale dei musulmani italiani”? Plausibilmente nessuno.

Le realtà islamiche organizzate presenti su Milano e Lombardia sono numerose e diversificate (così come a livello nazionale); nessuna di queste può avere la pretesa di essere unicamente rappresentativa dell’Islam italiano e dunque legittima interlocutrice nei confronti dello Stato, un obiettivo che può certamente far gola ma che è difficilmente attuabile. L’Islam non è un blocco monolitico, non lo è mai stato e sono i fatti a dimostrarlo. Ogni comunità islamica ha adattato la religione in base al proprio contesto storico, sociale, culturale e non a caso l’Islam che si trova in Bangladesh è diverso da quello saudita o da quello senegalese. Non a caso esistono differenti scuole giuridiche, diverse interpretazioni e correnti, persino all’interno di un unico Paese islamico.

Affermare di essere i legittimi rappresentanti della comunità islamica semplicemente perché si gestiscono più centri islamici (e anche qui è da vedere e verificare) significa andarsi a mettere in una situazione estremamente complicata perché si rischia di sottovalutare tutte quelle differenze interne sopra citate che dimostrano ben altro.

Dal lato istituzionale bisogna fare molta attenzione a quali interlocutori ci si sceglie in quanto optare per quelli sbagliati nella migliore delle ipotesi porta a un’enorme perdita di tempo e di impegno, mentre nel peggiore dei casi si rischia di mettere a rischio la sicurezza nazionale.

Non è da escludere che forse la linea più adatta potrebbe essere quella di rivolgersi a più interlocutori, senza previlegiare nessuno, ma cercando piuttosto di capire le esigenze delle singole realtà ed eventualmente fornire soluzioni adeguate. Puntare su un unico interlocutore potrebbe infatti portare a ulteriori divisioni e scontri all’interno delle varie comunità islamiche, con tutta una serie di conseguenti ripercussioni sul territorio

[1] http://www.ilgiornale.it/news/milano/guerra-fazioni-limam-licenziato-moschea-jenner-1562221.html

[2] https://www.itstime.it/w/islam-militante-a-milano-by-giovanni-giacalone/

[3] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/bangladesh-la-nuova-frontiera-del-jihad-15391