L’ultimo breve video di IS, Flames of War – Fiamme di Guerra – sta ricevendo gli onori della cronaca come un sofisticato trailer nella campagna mediatica condotta da al-Hayat Media Center per IS. Si tratta di un video di circa un minuto, discretamente fatto con materiale di repertorio, abbastanza serrato nel ritmo, qualche slow motion: diciamo sullo stile del trailer che annuncia cosa verrà dopo. In questo caso che sia un altro video o altro, in riferimento alla guerra vera, staremo a vedere.
Due punti.
Ci si stupisce del prodotto mediale: un ragazzino con qualche skill su Premier o Final Cut fa altrettanto rapidamente e può fare molto di più. Già nel passato abbiamo visto i media center del jihad lavorare abilmente anche con effetti più difficili come i chroma key e lanciare annunci (trailer) che spesso non trovavano realizzazione in un prodotto successivo. Dunque lo stupore per queste cose non ha senso, se non nella misura in cui è in sé mediaticamente utile oppure è sintomo di ancora lenta comprensione del fenomeno IS.
Ma il video soprattutto sottolinea la consapevole strategia mediatica di IS, anche questa tuttavia connaturata nella lotta jihadista, che impiega i prodotti video e mediali in genere nel campo di battaglia della “guerra diffusa” in atto. Apprezzabile, in questo caso è la strategia, più che la tecnica, che elabora un video dal finale aperto (seguirà un video gioco, un lungo metraggio, un serial,…?) che incorpora l’idea di convergenza mediale tipica della nostra società. E anche, una strategia che, aggirando tutte le limitazioni imposte sulla trasmissione dei contenuti (video particolarmente violenti e orripilanti ricadono nelle politiche censori ormai utilizzate anche dai social) riesce così ad avere una diffusione virale enorme.
Quest’ultimo punto ci deve interrogare per aprire nuove discussioni che sono teoriche e politiche.
Teoriche perché ci si interroga sulla validità delle teorie degli effetti dei media, per comprendere “che effetto fa” essere esposti a questa produzione? Produce e facilita violenza? Promuove reclutamento?
Politiche, perché in caso di risposta affermativa alla domande di cui sopra, pone il problema di una censura non più basata sui contenuti (no comunicazioni violente, etc.) ma sulle fonti (in gruppo terrorista ha diritto di accedere al broadcasting seppur social?)
Sono domande, e soprattutto risposte, delicate ma che ci si deve porre: la comunicazione è strumento della guerra già in corso e con tale consapevolezza deve essere affrontato nei sui diversi aspetti.