La faccenda dei tre medici italiani di Emergency arrestati dopo la perquisizione all’ospedale di Lashkar Gah continua, giustamente, a far discutere: ne sono coinvolti tre cittadini italiani. Noi dell’Università Cattolica, che in Afghanistan ci siamo andati con una certa frequenza negli ultimi mesi per le attività di cooperazione con il Ministero della Difesa, abbiamo potuto sperimentare qualche relazione diretta con la complessa realtà di quel Paese, alla quale il caso in questione bene si uniforma.
La cronaca è risaputa: a seguito di una perquisizione sono state trovate armi nel deposito dell’ospedale custodito da Emergency, da qui l’accusa di complotto contro il governatore Gulab Mangal e l’arresto dei tre medici italiani. A seguire la dichiarazione di una loro confessione e poi la smentita; l’accusa di sequestro al governo afghano da parte di Emergency e l’intenso lavorare degli uomini della Farnesina, l’ambasciatore Claudio Glaentzer in testa. Infine un comandante talebano, Abdul Khaliq Akhund, che sostiene la non convenienza a pagare stranieri per avere dei martiri, quando si hanno a gratis.
Che cosa realmente è successo si verificherà in questi giorni. Collusione col terrorismo? No. Certamente Emergency ha delle simpatie, che certamente in alcune parti del mondo (quelle) creano dei problemi, ma non è una organizzazione fiancheggiatrice. Consapevole supporto da parte di poche mele marce? Possibile. Le medesime simpatie di cui sopra la rendono più vulnerabile a chi se ne può approfittare, sia per l’interesse dei talebani sia per chi volesse incastrarla.
Stupida leggerezza? Sì comunque. Perché in un ospedale dove, anche chi legittimamente può portare un’arma fa fatica ad entrare, poi le armi illegittime sono di fatto entrate, senza controllo.
Le dichiarazioni afghane delle ultime ore sembrano tendere a smorzare i toni. Questa è una mano tesa a chi, benché pubblicamente invitato a restare e a operare, ha destato più di un sospetto per un difficile senso di “equità di distribuzione della cura” che è sia lontano dal sentire dei combattenti delle guerre centro asiatiche (ma solo queste?) sia è di non semplice dimostrazione quando chi lo professa esprime giudizi tanto diversi sulle parti in campo.
Al contrario, le dichiarazioni di Emergency che accusa di sequestro gli afghani purtroppo sembrano confermare un certo strabismo che non aiuta chi sta lavorando per uscire dall’inghippo ma rafforzano chi potrebbe essere interessato a “fargliela pagare”. Sono dichiarazioni forse nello stile dell’organizzazione, che pertanto ne confermano la debolezza ideologica e l’equilibrio, a fronte di una innegabile capacità professionale messa a frutto su tanti campi di battaglia. Per Emergency, a mio modo di vedere, si tratta di uno spunto di riflessione. A cominciare da un poco meno di protagonismo, spesso cercato nelle vicende afghane, che permetta alla diplomazia di fare il suo lavoro: i tre medici sono cittadini italiani che il nostro Paese non ha abbandonato e non abbandonerà. Questa sicurezza è quella che tutti noi abbiamo e dobbiamo avere quando lavoriamo in contesti del genere ed è stata già confermata, per esempio, nell’affare della chiusura della ambasciate in Yemen, a gennaio 2010. Dove, a differenza di altri Paesi, l’Italia a Sanah non ha chiuso la porta in faccia ai suoi cittadini, malgrado i segnali di rischio oggettivo per il personale diplomatico. E’ ancora quello che in Afghanistan il Ministero degli Esteri sta facendo con il Governo Afghano, a tutela di nostri connazionali, ma che richiede almeno un passo indietro e un basso profilo dalle organizzazioni direttamente coinvolte.