Una lettura di quanto è accaduto in questi ultimi giorni in Iraq e nell’area Medio Orientale e Centro Asiatica. Una lettura “fredda” per ragioni climatiche – è sabato 15 e scrivo dalla Siberia – e perché, qui sotto la neve, le informazioni per chi non parla il russo sono poche e frammentarie. Una lettura “calda” perché non più di tre mesi fa mi trovavo nel Kurdistan iracheno, e i miei pensieri di oggi non possono prescindere dai volti, dalle sensazioni e dalle parole di tutti coloro che ho incontrato dal Capo del governo al terrorista di Ansar Al Islam.
Quanto è accaduto ai nostri soldati, segue l’attentato di Riad, è connesso al successivo attentato in Turchia, è in linea con le bombe sulla Croce Rossa e sulle Nazioni Unite. Non ha nulla a che fare con la guerriglia irachena di supporto a Saddam: una guerriglia che non esiste e che non c’è, perché nessuno in Iraq rivuole il Rais. Invece, nella delicata fase della ricostruzione di un sistema istituzionale su basi nuove, esiste una perfetta strategia di promozione dell’incertezza e del disordine governata dalla rete del terrorismo internazionale che sta giocando, in Iraq, la partita più delicata dopo l’11 settembre. I disperati che inneggiano a Saddam perché non vengono pagati o non hanno elettricità non sono guerriglieri, ma fanno parte di quella massa che è facile mediatizzare con una etichetta. Quello che dai confini iracheni-iraniani si nota con una certa chiarezza è che, dopo essersi accasati in quattro o cinque città nord iraniane, i terroristi di Al Qaeda da mesi stanno entrando al seguito dei pellegrinaggi religiosi nelle città riaperte del Sud Iraq, per seminare il terrore. Si tratta di arabi-afgani (di nazionalità araba, afgana, yemenita, siriana, giordana, marocchina, tunisina, pochi iracheni) a cui è affidato il compito di spargere la morte per mantenere “saldamente incerto” il futuro del Paese. In questo senso l’attacco ai nostri soldati era scritto, facendo parte della medesima logica: non ci sono in Iraq combattimenti di bahatisti contro “occupanti invasori” – gli americani – ma attacchi del terrorismo internazionale contro coloro i quali – Croce Rossa, UN, italiani – promuovendo la stabilità cercano di favorire in Iraq la nascita di istituzioni affidabili. In questo senso, la politica delle “porte aperte” che caratterizza “gli italiani soldati di pace” temo non possa funzionare, perché per la prima volta si affrontano nuove forme di guerra. E’ molto probabile che questa situazione di elevato rischio perduri per molto tempo. E che nel prossimo futuro gli attentati si moltiplichino non solo in Iraq, ma anche in altri paesi e non solo occidentali. Per questo l’attentato alle sinagoghe turche mi sembra perfettamente riconducibile al disegno di “Al Qaeda” (per semplicità uso questa sintetica etichetta), epicentro del terrorismo in Iraq e, da qui, verso sud e occidente, attivando cellule in sonno ma, soprattutto, innescando pericolosi comportamenti imitatitivi in altri contesti islamici con legami in Occidente. Quanto accade oggi in Asia Centrale determina la futura quotidianità pacifica – o meno – del nostro vivere nelle città occidentali. La permanenza in Iraq – perché a mio parere è necessario restare – deve implicare un progetto a lunga scadenza. Nessuno può permettersi una “lotta continua”, perciò una visione futura non può essere che pacifica, ma questo significa avviare un lungo e costoso processo di democratizzazione dell’area. La democrazia che oggi è per noi un valore, ha richiesto lunghi tempi di sedimentazione, prima di attestarsi tra i principi irrinunciabili dell’Occidente. E in quanto tale, in quanto valore, non può essere esportato, né imposto, né rapidamente accettato. La possibilità che abbiamo, invece, è di esportare le pratiche democratiche e gli strumenti della democrazia in Iraq: i meccanismi istituzionali, le modalità di rappresentanza, le dinamiche elettorali, i sistemi di diritti e di doveri tra uomini e donne, ecc. Dunque pratiche che hanno il potere di arrivare alle idee perché quotidianamente incidono sulla vita di ciascuno. Di fatto la scommessa è quella di esportare le pratiche della democrazia in un contesto fortemente anti-democratico per principi, tradizioni e comportamenti come è quello islamico, intervenendo in risposta ai bisogni di tutti giorni in cambio di comportamenti democratici, non di adesioni ideologiche. Le scelte di principio verranno dopo. Si tratta di un modo di agire difficile e nuovo, in cui la medesima democrazia è carente di strumenti per la propria difesa. Non a caso in Iraq, nell’ipotesi di future elezioni, si sono già levate le voci di chi, dopo aver assunto il potere per via democratica, non fa mistero di aver l’obiettivo di abolire lo stesso sistema democratico. Si tratta di un’ambiguità della democrazia – che deve essere risolta – la quale mostra come l’ipotesi di elezioni a breve in Iraq non sia possibile, ma si debba necessariamente pensare a un lungo periodo di transizione alla nuova forma di governo. Un ragione in più per restare a lungo – più di quanto previsto – in quel Paese pur in un contesto di criticità, con il terrorismo in aumento e in allargamento ad altre aree.
Marco Lombardi