Il recente attentato occorso a Liegi qualche giorno fa (qui un approfondimento) rivendicato da Deash via Amaq, ma anche l’evocativo attacco con coltello sul treno in arrivo a Flensubg (Germania), riporta l’interesse per una domanda quanto mai essenziale per la sicurezza di tutti noi: quale è l’eredità di Daesh?
La risposta non è di semplicità immediata, ma alcune riflessioni circa lo stato di salute e di resilienza di Daesh devono essere fatte.
In primo luogo negli ultimi mesi la copertura mediatica di questi eventi è andata calando: basti ricordare l’attentato del 23 Marzo a Trèbes o quello del 05 Maggio all’Aja. Tutti questi attentati non hanno ricevuto la stessa attenzione e copertura degli eventi occorsi fino ad Agosto 2017.
Allo stesso modo però non riportare un evento non significa che esso non si sia verificato o che esso non sia reale nei suoi effetti.
Da questo punto di vista appare chiaro che in considerazione di alcune caratteristiche sociali e stili di vita propri, gruppi di cittadini chiedano maggiore sicurezza per le città “sempre più a rischio”.
Questa considerazione muove necessariamente ad un altro punto importante: la sicurezza e la vulnerabilità delle nostre città.
Agenzie internazionali stimano che nel corso dei prossimi due decenni, più del 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città o in quelle che dagli inizi del nuovo millennio sono state definite megacities.
Un riguardo particolare meritano quindi le analisi relative allo stato dei quartieri delle nostre città e alla possibilità di misurare e valutare in modo predittivo determinati eventi.
Il tema delle “violenze territoriali”[1] sarà centrale nei prossimi anni, soprattutto connesso al discorso delle identità plurime e della produzione di sé in riferimento anche ai pregiudizi che ne possono derivare e che necessitano di essere adeguatamente gestiti.
Nonostante quindi una certa dis–attenzione dei media nel veicolare informazioni circa questi eventi, la percezione del pubblico rimane alta e fenomeni come quello occorso in Piazza San Carlo a Torino lo scorso anno mettono in evidenza che esiste una forte interiorizzazione di paura e disorientamento, quando la domanda di sicurezza non trova sua pertinente risposta.
In questo quadro complesso e delicato si delinea però la resilienza di Daesh, nell’essere stato in grado più o meno consapevolmente di strutturare una gestione resiliente della minaccia che voleva portare.
Perché resiliente?
- Il cambiamento nel reclutamento operato attraverso un notevole abbassamento del grado di specializzazione richiesta dagli autori dei vari attacchi: dalle armi ai luoghi tutto si è fatto sempre più intimo, familiare, quotidiano permettendo quindi a livello cognitivo un innalzamento della percezione di minaccia come grave e reale
- Il gioco sulle dinamiche percettive è proseguito tanto che gran parte della comunicazione strategica verte su effetti cosiddetti di decoupling[2], che consiste nella dinamica di disaggregazione di contenuti per raggiungere però livelli più alti di diffusione
- Tale strategia di decoupling si è nel corso del tempo rafforzata attraverso una dinamica di valenza nel suo significato di dare vita a un qualcosa di specifico sia dal punto di vista territoriale sia culturale. In questo caso i recenti e perduranti attacchi con coltello in Germania negli ultimi mesi sono un segno importante della comprensione e utilizzo di tale strategia. Soprattutto agire secondo un principio di valenza significa anche cedere di fronte a difficoltà, ma per sapersi poi ricombinare in nuove forme sempre più attuali
- Da una prospettiva “di matrice” si parla sempre di estremismo religioso, ma se ben si analizzano le sue componenti e le sue strategie non è possibile non notare una notevole similitudine con l’ordine politico delle chefferie o dominio: organizzazioni politiche istituite su base regionali e studiate in antropologia attraverso l’appartenenza al gruppo, la leadership e il combinarsi di ruoli fra il funzionale e il parentale
- Si ravvedono le caratteristiche della resilienza anche per l’occupazione che è stata fatta di luogo e tempo: il luogo rimanda ovviamente alle nostre città non solo, quindi, violente ma anche violentate così come il tempo è dilatato dal presidio che ne ha fatto la minaccia
- Da ultimo una iniziale organizzazione terroristica è stata in grado di innestarsi[3] in contesti geografici e culturali differenti raggiungendo i propri obiettivi, assecondando le vulnerabilità tipiche del sistema vittima e sfruttando certe sue caratteristiche
In questo scenario, dove Daesh per come lo si conosceva è morto, sicuramente rimangono da comprendere gli effetti reali che è stato in grado di generare dimostrando di avere ben appreso i principi della resilienza comunicativa e organizzativa, così come i suoi processi di trasmissione e promozione.
Ciò significa che la sfida concreta è quella di rivolgere più attenzione alle forze in campo nell’ordinario per rispondere e arginare i fenomeni di “terrorismo quotidiano”, integrandosi con le competenze specialistiche cui resta un sempre più difficile compito predittivo.
In definitiva Daesh sta dando prova di sopravvivere perché è un mito alla portata di tutti, a cui è facile aderire ispirandosi con comportamenti semplici: Daesh è dunque vivo nei suoi effetti… anche se non è più lui.
[1] Friedman, J. (2003), Globalisation, Dis-integration, Re-organisation: The Transformation of Violence, Friedman, J. (a cura di), Globalisation, the State, and Violence, Altamira, Walnut Creek, Lanham, Oxford.