Prima togliere anelli e orologio, lavare le mani, vestire i calzari (un paio basta ma due è meglio), indossare primo paio di guanti, vestire camice o, meglio, tuta di materiale particolare, se possibile bucare a livello del pollice in modo da agganciare la tuta, indossare la maschera (FFP3), vestire camice monouso e mascherina chirurgica, occhiali o copri occhi, secondo paio di guanti. Da questa parte individuale (ma se aiutati è meglio) si aggiunge la solidarietà del collega che sigilla con strappi di cerotto bianco le battute dei vestiti, eventualmente anche i polsini sopra i guanti.
Ora si è pronti per entrare in trincea ma, attenzione, non ancora dove si combatte veramente. Prima di accedere alla stanza di degenza ulteriore paio di guanti che dovrà essere cambiato dopo aver visitato ogni singolo paziente. Se poi si sottopone il paziente a ecografia versare il gel sulla sonda, guantare la sonda medesima e spalmare altro gel sopra.
Il contatto col paziente è mediato da tre paia di guanti. Solo la campana del fonendoscopio tocca le nudità del paziente (torace antero-posteriore e addome) ma poi va subito disinfettato. Il dialogo col paziente è mediato da mascherine (sia dell’operato sanitario che del paziente medesimo) per cui sembra di parlarsi a distanza. Se poi il paziente ha un po’ di ipoacusia diventa un dialogo dell’assurdo. Impossibile con paziente anziani, per di più sotto maschera o casco d’ossigeno – che guardano spaesati o sorridono stupiti – non avvicinarsi, prendendoli per mano e iniziare a urlare vicino al padiglione auricolare. Poi prontamente portarsi di fronte alla bocca per cogliere quel fiato lieve che dovrebbe essere risposta.
Capire come sta, com’è andata la notte, se ha dolori è un’opera ermeneutica che si sostanzia nell’interpretazione della luce degli occhi e nel sorriso (stirato, stanco, vero, sforzato) che si riceve. Si crea una forma d’empatia forte fino a rompere, se fosse possibile, i neuroni specchio. Per capire chi hanno di fronte i pazienti devo leggere il nome e il titolo che con un pennarello un collega ti ha scritto sull’ultimo camice a livello del petto. E’ un tocco d’umanità a cui il personale meno ingessato unisce un disegno di un fiore, una stella, un bacio.
Visitato il paziente si deve procedere a prelievi, esami strumentali, richiesta di esami da scrivere su una tastiera di un elaboratore elettronico ma tutto con almeno due paia di guanti. Se poi l’età non consente una visione da vicino ottimale bisogna pazientare e spostarsi in un ambulatorio per potersi alzare la mascherina (dopo aver indossato un paio di guanti puliti) e indossare, con un minimo di sicurezza, gli occhiali da lettura. Tutto più difficile, tutto più lento, tutto più maledettamente umano. La definizione di eroi (a volte anche supereroi) cade miseramente: nessuno, per quanto ne so, ha manifestato una vista a raggi X o il senso del ragno o lo scudo protettivo. Si combatte contro un nemico che non si può prendere a pugni e che quando si sente il dolore dei suoi cazzotti è già dentro di te, che si nasconde e dal quale non ci si può nascondersi, che non si lascia prendere ma si insinua.
A volte ci si fa prendere da sentimenti forti: rabbia, fretta, affetto ma è peggio perché invariabilmente la mascherina o gli occhiali si appannano e bisogna aspettare e calmarsi per poter tornare a vedere qualche cosa di nitido. Quindi respirare a fondo ma espirare piano, camminare con passo spedito ma non eccessivo, parlare ma non urlare.
La preparazione non è banale; bisogna stabilire quando e quanto bere perché bardati in quel modo non si può certo dare spazio a evacuazioni fisiologiche. Bere molto prima, ma svuotare completamente la vescica prima di vestirsi; il “mantello e lo scudo” di Capitan American si potranno togliere solo dopo sei od otto ore e muoversi con quel fastidioso gravame che spinge sul basso ventre non è agevole. Anche bere troppo poco non è vincente: si suda, maledettamente tanto, e dopo alcune ora si fatica a mettere a fuoco più per la disidratazione che per il sudore e le lacrime.
E’ finito il turno, è ora di uscire. Davanti alla porta via i calzari (primo e secondo paio) con veloce passo per posizionarsi su tappeti pretrattati con liquidi igienizzanti, quindi primo paio di guanti e immediatamente dopo igienizzare il paio rimanente per togliersi il camice … ma intanto la testa torna sul paziente che tutto fa pensare domani non si troverà più oppure su quello che nonostante tutto non ha migliorato o quello che si dava per spacciato e invece aumentando un po’ il dosaggio del cortisone è migliorato … oppure la testa vola a casa, alle persone che si amano e che è bene non avvicinare in questo periodo … ecco ho sbagliato ho tolto i guanti senza fare attenzione di sfilarli rigirandoli in modo da toccare solo la parte interna e non quella esterna o forse la maschera prima della tutina … non so la testa pesa.
Forse una sequenza errata è quella che ha riportato in corsia, da malato, il medico e l’infermiere; forse un gesto non meditato ha chiuso la sua esistenza professionale. La mente, in quel momento, era ancora dentro la stanza con il paziente grave o forse era già corsa a casa dalle persone amate. Umanità significa anche questo.