L’immagine più vera, più sacra, più icastica della pandemia in Italia non è quella del Pontefice solo in Piazza San Pietro e neppure quella del Presidente della Repubblica che scende le scale del Vittoriano ma quella dei camion militari che nella penombra trasportano feretri perché gli inceneritori di Bergamo non bastavano neppure lavorando ventiquattro ore al giorno.
E’ tutto lì: il dolore, la disperazione, l’addio, il silenzio angosciante. I filmati nei quali si sentono le sirene delle pantere della Polizia di Stato e si vedono gli agenti, in attenti e sul saluto militare, mentre i camion sfilano stringono alla gola e riempiono gli occhi di lacrime. La potenza evocativa che li domina cancella tutto il resto perché parla di vita e di morte, di certezza e di mistero, di Dio e di uomo. Fotografie e filmati che parlano senza parole ma con una forza che dilania le carni.
Molti hanno parlato della Spoon River del Covid (tra questi sicuramente Toni Capuozzo dal suo rifugio casalingo), di quante vite si sono spente e di quanta parte della quotidianità e della storia di singoli si sono portati con sé.
Esiste una differenza fortissima tra le poesie di Edgar Lee Master (e la resa musicale nei testi delle canzoni di Fabrizio De Andre) e le sepolture di cui parliamo: nelle prime la morte veniva per aborto, per maltrattamento, per i calci alla ricerca dell’anima; queste sono avvenute tutte perché i polmoni non riuscivano più a prendersi l’ossigeno dall’aria e si riempivano di liquido fino al soffocamento totale.
Nel cimitero di Spoon River ognuno è giunto con una storia e con una morte diversa; in questo ideale cimitero di oggi no. Nel nostro ideale camposanto ci sono persone morte lottando fino all’ultimo secondo nel tentativo di trovare spazio, anche minimo, per l’aria. Sono persone che sono in larga parte morte lontane dai propri affetti, confortate da personale sanitario che quando non ha potuto somministrare più alcun farmaco ha stretto una mano, guantata l’una diaccia l’altra, perché il distacco avesse ancora un saluto, una fisicità, un niente d’umanità.
Una generazione è stata decimata. Una generazione di nonni per la quale forse non abbiamo avuto molto rispetto, almeno a leggere i libri di scuola sui quali ci hanno fatto studiare. Perché è la generazione che ha vissuto e in larga parte creduto nell’Italia, in un’altra Italia, l’Italia sbagliata. Una generazione sfortunata perché non ha potuto dire ai propri figli e nipoti che hanno creduto in un sogno e si sono svegliati in un incubo. Noi siamo nati pensando al nuovo millennio e quando l’abbiamo raggiunto abbiamo pensato ad altre mete ancora più lontane. E’ doveroso vivere guardando al futuro ma è sempre pericoloso non fare i conti col passato.
Il virus, la pandemia, la morte ha chiusa questa guerra civile tra nonni e nipoti. Il corona virus ha se non ucciso di molto sfoltito questa parte di memoria vivente che ci raccontava di un’Italia contadina che ha visto nella Lambretta il futuro e nella fabbrica il nuovo.
Riguardo le fotografie e vedo feretri allineati sui camion militari che lasciano i monumenti di una città bellissima persa tra un sopra e un sotto, una città abbracciata dal verde e dal panorama di montagne, una città troppo piccola per competere con vicini “giganti” (Milano degli Sforza, Verona degli Scaligeri, la Venezia dei dogi) ma con una storia ricca e affascinante.
Penso e nella mia poca fantasia vedo solo persone con vestiti dimessi ma portati con dignità, mani callose per il lavoro sui campi e nelle industrie, sorrisi dolci. E’ un pensiero quasi banale: chissà quanti tra loro erano professori, erano dirigenti d’industria, erano donne di successo. Mi piace però l’Italia rurale, quella che poneva il grano nei silos e non spendeva più di quanto guadagnava. Quella che correva a coprire le vigne quando si avvicinava l’aria di tempesta. Quella che finiva le serate con una partita a carte in osteria.
Pensiero, dico ancora, banale. Ora abbiamo l’Italia dei professori, di quelli che hanno studiato e parlano bene. Proprio quelli che hanno chiuso ospedali e letti d’emergenza, quelli che non hanno saputo creare scorte di materiale per la protezione individuale anzi, in nome delle esigenze di mercato, hanno insegnato che tutto doveva essere delocalizzato. Vedo l’Italia di chi infarcisce i propri discorsi di locuzioni inglesi perché gli stessi pensieri espressi con parole in italiano darebbe immediatamente il peso dell’inconsistenza.
Una generazione semplice che se n’è andata in molti casi vedendosi negato un ricovero ospedaliero perché il letto era stato soppresso (alla ricerca del giusto rapporto tra abitanti e posti di degenza), senza essere visitato dal medico di famiglia (perché le mascherine non vengono più prodotte sul suolo nazionale per essere competitivi), senza una veglia funebre o un funerale (perché questo tipo di assembramenti è stato giudicato molto più pericoloso di altri).
Una parte dell’Italia che se n’è andata. Vorrei dire se non la peggiore quella più inconsistente; non riesco a trovare gli argomenti per sostenerlo.