L’ondata di pazienti gravi e gravissimi – che si è abbattuta negli ospedali e di quelli bloccati a casa nelle località ove SARS – Co-V-2 si è scatenato – ha scosso gli animi di tutti e ha portato a drammi etici vissuti dal personale sanitario impegnato nei Pronto Soccorso, nelle terapie semi-intensive e in quelle intensive.
L’adozione, a denti stretti, di un “triage stile militare” è risultata la scelta più logica per agire: valutare chi è più urgente (fino a qui siamo nella normalità dell’emergenza ospedaliera) ma anche valutare chi potrà sopravvivere e chi no (concetto tipico delle situazioni in cui si determinano i “disastri di massa”) e, in base alle scelte, agire di conseguenza.
Tutto questo non stupisce i medici militari così come non stupisce il personale sanitario delle Organizzazioni Internazionali, di quelle Governative e non, che agisce nei teatri di guerra e ove si verifichino le catastrofi naturali. Il modo di procedere è sempre quello: il chirurgo più esperto valuta segni e sintomi e decide chi dev’essere portato in sala operatoria per primo, chi può attendere e chi non avrebbe alcun senso trattare perché ha un destino già segnato e il tentare “il tutto per tutto” si risolverebbe solo in un aumento della mortalità che colpirebbe coloro che potrebbero essere salvati con intervento tempestivo e che decedono nell’attesa del “gesto disperato” (che proprio perché tale si sa già che si concluderebbe comunque con l’exitus).
Il chirurgo più esperto valuta, decide, priorizza. Assegna un numero o un codice. Per qualcuno il numero è il quattro (oppure il codice è il nero) che si traduce con una indicazione volta a garantire un trapasso sereno e dignitoso. Non è facile da fare ma è necessario perché il totale dei decessi sia il minore possibile e, se ben fatto, coincida con quello delle morti inevitabili.
“Senectus ipsa morbus est” è un aforisma che spesso si attribuisce al padre della medicina (Ippocrate) ma che invece deriva da una commedia di Terenzio. Forse può essere un luogo comune, certamente non fa parte del bagaglio di un medico. La vecchiaia è una fase della vita, non una patologia. In carenza di risorse sanitarie si possono adottare molti parametri per priorizzare ma non può essere automatico l’adozione di quello dell’età.
Non lo è neppure sotto un aspetto sociale, anzi. Se ben guardiamo un anziano che abbia settanta od ottanta anni e che sia in buona salute è verosimile che abbia assolto ai propri obblighi verso la comunità pagando con le proprie tasse un’assistenza sanitaria alla quale non ha mai fatto ricorso. Perché quando è il suo turno un respiratore gli deve essere negato? Ha il torto di essersi ammalato nel momento sbagliato della sua vita?
E’ etico scegliere tra un anziano in ottimo stato di salute e un giovane adulto sano? Se ambedue hanno le stesse possibilità di sopravvivere con il giusto approccio perché l’ago della bilancia deve per forza pendere verso il più giovane? Se il più giovane è un mariuolo e l’anziano è un benefattore dell’umanità si può inserire un coefficiente che faccia mutare la scelta? Se il medico si trovasse di fronte a un genio dell’umanità anziano (un sublime direttore d’orchestra, un artista che ha reso più bello il mondo con le sue opere, un poeta che ha eternato un sentimento con versi che toccano il sentimento di tutti) e un balordo giovane (uno scapestrato, un ventenne che uccide i propri genitori per avere l’eredità e vivere bene con soldi ancora non suoi) può ancora fare riferimento al dato anagrafico per scegliere a chi dare il respiratore?
Voglio pensare che il Professor Severino sia sparito dai nostri occhi e viva la propria eternità in un altro luogo sensibile, prima che il virus ci affliggesse, proprio per non creare dilemmi etici di questo tipo ai medici bresciani, qualora ne fosse risultato affetto. D’altronde il filosofo “venerando e terribile” al quale viene sempre accostato (Parmenide) ha vissuto a lungo così come hanno sorpassato l’età media – per portarci ai giorni nostri e parlare di pensatori quasi contemporanei – Paul Ricoeur (92 anni), Ernst Junger (103 anni), Hans George Gadamer (102 anni). Se il medico si fosse trovato di fronte uno di questi geni (ognuno dei quali ha lavorato e prodotto fino alla fine dei propri giorni) quando avevano 70 od 80 anni e avesse scelto – solo sul dato anagrafico – di non concedergli il respiratore non si sarebbe reso colpevole di aver impoverito l’umanità tutta?
Domande alle quali non so dare risposta ma che mi rimbombano dentro. Ritorno al pensiero del Professor Severino e voglio credere che la legna, il fuoco e la brace siano eterni che si appalesano in momenti diversi e che risultino assenti solo a causa della nostra incapacità di vederli. Come sempre la filosofia è un ristoro per l’anima anche quando non sana le ferite.