La pandemia da coronavirus a cui stiamo assistendo ha sconvolto menti, strutture, governi ed economie non meno che sicurezze scientifiche, protocolli diagnostici e terapeutici, senso di comunità scientifica.
Da almeno venti anni gli epidemiologi, i virologi e gli infettivologi temevano l’arrivo di una pandemia influenzale e, ogni anno, tenevano tutto il mondo sanitario con il fiato sospeso parlando di H e di N e delle possibili combinazioni. Si discuteva di quanti morti avrebbe potuto causare e di quali strategie adottare al fine di impedire il collasso del sistema sanitario.
La pandemia alla fine è arrivata (ben prima che l’Organizzazione Sanitaria Mondiale si degnasse di definirla con il nome che meritava) e ci siamo risvegliati tutti ignari di quale strategia adottare, inseguire, applicare. Abbiamo recitato tutti a soggetto ogni volta pensando di avere capito e trovato la strategia.
Da “è poco di più di un’influenza” siamo passati al fatto che fosse una “MARS” (non severe ma moderate sindrome da insufficienza respiratoria), per poi definirla come un flagello che portava a una polmonite rapidamente progressiva fino all’exitus. Ben presto ci siamo resi conto che era necessario intubare il paziente prima che determinati parametri (da lungo tempo riconosciuti indicatori per la procedura) fossero raggiunti al fine di non far stancare eccessivamente la muscolatura del paziente. Per alcuni giorni abbiamo sorriso, poi ci siamo resi conto che anche l’intubazione precoce poco incideva sulla soluzione finale. Antivirali, antinfiammatori, antibiotici di copertura, C-pap, ossigeno terapia sono stati presentati come risolutori salvo poi ritornare sui propri passi.
Anche l’illusione che fosse una patologia solo polmonare è durata poco; l’aumentata incidenza di infarti del miocardio ha subito posto attenzione che il virus risultava anche miocardiotrofico. A seguire le evidenze di quadri neurologici sempre più vari. Tardive comparse di quadri dermatologici di ogni tipo compreso la riaccensione di patologie virali verso le quali, come si legge sui libri di studio, si acquisisce o si dovrebbe acquisire un’immunità permanente (per esempio il morbillo).
Anche sul perché fisiopatologico dell’insufficienza respiratoria le discussioni sono molteplici: dal meccanismo di esaurimento muscolare, all’attacco del centro respiratorio per neurotrofismo, alla trombosi del microcircolo, alla sovrainfezione batterica, alla distruzione dei setti per un “incendio” immunitario legato alle interleuchine.
Quadri trombociti di ogni tipo e gravità (l’eparina a basso peso molecolare “ci salverà” a dosi profillatiche, poi a dosaggi pieni, poi a dosaggi correlati col peso) ma anche forme emorragiche (anche cerebrali) per i quali l’uso dell’antitrombotico aggrava il quadro.
In definitiva siamo ancora senza linee guida e senza un protocollo accettato dalla comunità scientifica e che possa superare i test statistici di significatività.
Però si applicano schemi e molti pazienti migliorano, guariscono, si riprendono. Altri nonostante tutto peggiorano, diventano instabili, muoiono.
Non abbiamo ancora un punto fermo e una visione comune. Tutti dopo aver passato tempo in corsia corriamo a leggere articoli, revisioni, testimonianze scritte da colleghi che hanno osservato un miglioramento o un peggioramento dopo la somministrazione di un farmaco o una procedura. Impossibile riuscire a leggere tutto ma affascinante questa sorta di dialogo scientifico da terzo millennio per il tramite della rete con domande e risposte, consigli e critiche che corrono nell’etere e, verosimilmente, si traducono in una nuova speranza per un ignoto paziente, disteso in un letto di un qualche ospedale, in un Paese qualsiasi.
La cultura dell’incerto contraddistingue il momento e costantemente ci spinge a riconsiderare le certezze che negli ultimi due secoli (e sicuramente da dopo il secondo conflitto mondiale in poi) hanno costituito il caposaldo della nostra formazione. Come personale sanitario siamo dovuti tornare al letto del paziente, vestiti come marziani, riconsiderando ogni singolo caso (la clinica) sia come oggetto di studio sia come persona che soffre (paziente dal latino patiri).
L’incerto, ho scritto, non l’imprevedibile. L’incerto perché oggettivamente in ogni momento il SARS – Covid 19 ci fa mutare idea e atteggiamento ma non l’imprevedibile perché che stesse arrivando l’ha ampiamente comunicato con largo anticipo tramite vivide e icastiche immagini in una remota ma non del tutto sconosciuta provincia cinese. L’incerto che non può e non deve diventare l’alibi per chi avrebbe dovuto fare (organizzare corsi di aggiornamento, iniziare a scrivere protocolli anche minimi, immagazzinare DPI e possibilmente già distribuirli nel territorio, scrivere già alcune disposizioni amministrative e organizzative) e non ha mosso un dito.
L’incerto che ha cambiato il nostro modo di vivere e procedere e continuerà a cambiarlo ragionevolmente per dodici-diciotto mesi ancora.