Oggi che i numeri dei nuovi pazienti lasciano tempo per le analisi scopriamo che il virus ha mutato. Nella sola zona di Lodi ve ne sono quattro sottotipi di cui uno particolarmente virulento. Per il momento questo dato poco aiuta nella gestione del paziente ma qualche indizio lo dà.
Negli ultimi giorni di febbraio e nelle prime settimane di marzo era impressionante il “martello” che si abbatteva sui Pronti Soccorso verso le 17.30 della sera. Giungeva il primo paziente e poi una sequela fino a notte con autoambulanze che rimanevano in fila, con il proprio malato a bordo, per attendere il momento dedicato per consegnare il carico umano, sofferente e affamato d’aria. Contemporaneamente nelle sedi più lontane delle valli bergamasche i medici di famiglia e di guardia medica (quelli non ancora diventati a loro volta pazienti o vittime) si recavano ai domicili: ascoltavano, vedevano, constatavano, disponevano il ricovero ma si sentivano dire al telefono di monitorare il paziente perché non vi erano ambulanze disponibili fino al giorno seguente.
Quando la prima linea cade le retrovie vengono invase e di fronte alla medicina territoriale annullata dal virus e dalla burocrazia (quella che avrebbe dovuto decidere se e quali DIP distribuire ai sanitari sul territorio) le retrovie vengono innondate. Gli ospedali si riconfiguravano chiudendo i reparti specialistici e inventandosi degenze COVID a varie intensità (con colori a tinte sempre più nere) contestualmente il personale strappato alla chirurgia e alla medicina iperspecialistica doveva fare ritorno all’internista pura.
In contemporanea il Paese veniva chiuso con provvedimenti presi, a favore di telecamera, nella fascia serale; impossibile verificare il numero di “like”. La decisione, quindi, di non combattere il virus in una rediviva battaglia di Canne ma di adottare la tattica del cuntactor. La prima soluzione sarebbe stata quella di acquisire un’immunità di gregge pagando una quantità immediata e mostruosa di caduti sul campo; alla fine i sopravvissuti avrebbero avuto il compito di generare discendenti e di riprendersi il Paese in mano. Se posto in grafico una curva con un picco rapidamente ascendente e poi più o meno discendente. Rileggersi le pagine del Manzoni sulla peste (in quel caso non si trattava di un virus ma di un batterio, per essere esatti) ci dà il quadro reale di che cosa sarebbe potuto accadere (questo rende i “Promessi sposi” ancor più capolavoro considerando che l’autore ha narrato un fatto avvenuto duecento anni prima con una maestria che apparentemente solo un testimone diretto avrebbe potuto rendere).
Si è invece scelto di contenere, isolare, prevenire. Ci nascondiamo perché il virus non riesca a passare dall’uno all’altro di noi e muoia nel malcapitato che lo alberga (o per decesso del medesimo o per guarigione). La curva è meno ripida e, soprattutto, meno alta ma raggiunto il picco si conserva sul livello di massimo per un tempo lungo).
Questa scelta ha preservato larga parte della popolazione ma, inevitabilmente, impedisce e impedirà un ritorno alla normalità che sia quo ante. La normalità di domani sarà necessariamente caratterizzata da distanze sociali, uso della mascherina, percorsi “sporchi” e “puliti” negli ospedali. La guerra, insomma, è di posizione con momenti di tregua e fasi di combattimento, complici il clima e l’attenzione di ogni singolo.
Una scelta che ha annullato tutte le discussioni precedenti sull’abbattimento dei muri e sulla costruzione dei ponti. E’ noto da sempre che quando scatta il pericolo ci si rifugia all’interno delle mura e ci si barrica in casa; un atteggiamento istintivo ma in questo caso decretato dal potere politico. La storia e l’intelligenza si sono riprese il loro posto e hanno messo a tacere i rumorosi censori. Non posso vantare titoli teologici ma anche il Paradiso altro non è che un “pari daiza” ovvero “lo spazio chiuso” il luogo cinto da un muro; la disobbedienza ha comportato la cacciata. La nostalgia – tutta ancestrale ma umana – ci riporta a cercare la sicurezza all’interno delle mura prima ancora che un decreto lo imponesse; se non sarà in questa vita speriamo lo sia nella prossima.
Negli ospedali si parlerà di aree rosse e verdi. Sul rosso non serve spendere alcuna parola ma sul verde sì. Il verde non sarà il colore della sicurezza ma quello della speranza. Il verde sarà tale fino a quando non scopriremo che un paziente (nonostante tutti i protocolli) o un operatore sanitario (nonostante tutte le precauzioni) in realtà era un portatore asintomatico. Allora il verde virerà al rosso per tutti gli astanti e ricomincerà la storia dell’indagine epidemiologica, della definizione di contatto, della quarantena, dei tamponi e dei test sierologici, della sanificazione.
Il verde come perpetuo risultato e non come certo punto di partenza, il verde come livello da mantenere e preservare, il verde come l’erba del prato bagnato e coltivato. Sarà verde, intenso e vivo, se il contadino veglierà notte e giorno per impedire che la talpa scavi il cunicolo o che la gramigna infetti.