Modelli di risposta resilienti ad una crisi e modelli predittivi resilienti ad una minaccia.
Gli attentati terroristici che hanno colpito e sconvolto la Francia in questo inizio di nuovo anno possono essere analizzati secondo molteplici prospettive, dalle implicazioni geopolitiche o economiche, alle motivazioni sociali o psicologiche, o ancora al “fallimento” (sebbene sia preferibile parlare di “vulnerabilità”, ma questo concetto è ancora “tabù” in riferimento a scenari operativi di governo) delle politiche sulla sicurezza, di quelle sull’immigrazione e dei protocolli anti terrorismo.
Voglio qui invece concentrare l’attenzione circa una diversa prospettiva di gestione delle crisi e del rischio, percepito e vissuto. Per fare ciò uno degli elementi, che devono essere considerati è la “resilienza”. Questo ampio concetto, che la letteratura americana e anglosassone in genere, sèguita a denominare come “blanket concept”, per indicare la sua generalità e adattabilità a qualsiasi contesto, o “buzzword”, per sottolineare quanto sia diventato di moda in questi ultimi 10-15 anni, rientra oramai in quasi tutte le agende politiche internazionali ed europee, in vasti settori accademici, ma è ancora poco considerato in termini preventivi e proattivi, nell’ambito della gestione delle crisi o della loro prevenzione.
Resilienza, in accordo alle più ampie definizioni, è definita come quella capacità di un sistema sotto stress, di una persona colpita da un trauma o da un evento critico, di adattarsi, essere flessibile al punto tale che sia possibile un ritorno “spontaneo” al livello di quasi normalità pre-evento.
E’ una definizione generale, che è servita soprattutto negli anni passati a mettere d’accordo studiosi e analisti di varie formazioni, utilizzandola poi come base per ulteriori ricerche e studi.
Uno degli errori più comuni, nel considerare questa definizione e nel non approfondire ulteriormente le potenzialità di questo concetto, è quello di sorvolare sulle possibilità di utilizzarlo come fattore predittivo e preventivo.
Analizzando la letteratura internazionale prodotta in questi ultimi decenni, nel settore della gestione delle crisi e dei disastri, la resilienza è stata per lo più definita, analizzata e attuata come principio operativo di recovery e ricostruzione. In riferimento agli scenari di crisi delineati da attentati terroristici e loro minacce, è possibile tematizzare la possibilità che la resilienza sia definita come principio operativo di prevenzione e mitigazione: questo a molteplici livelli.
Infatti i piani di analisi e operatività possono essere così distinti, in accordo alle differenti azioni da intraprendere: piano analitico, strategico, operativo, interpretativo.
Nello specifico della pianificazione e della progettazione della risposta in emergenza, il quadro analitico interesserà tutte le analisi pregresse effettuate per una specifica situazione di rischio o di minaccia. Il livello operativo invece, si situerà a metà strada fra l’analisi e l’operatività indicando nella coordinazione degli interventi delle agenzie interessate (e per certi aspetti anche della comunità a rischio), il suo metodo peculiare di risposta a una emergenza e aprendo la strada ai principi operativi di coerenza e interoperabilità. Sappiamo infatti quanto sia importante la coordinazione come metodo di governo di una crisi, altresì è ovvio che tale coordinazione tradotta nella pratica operativa debba considerare e rispettare principi come quelli di resilienza, coerenza dell’azione e comunicazione resiliente. La linea operativa di questi interventi e i protocolli a essa associati lascia il posto alle interpretazione successive l’evento, che da un punto di vista di gestione del pubblico e della comunità colpita o anche coinvolta in modo vicario, dovrebbero necessariamente seguire le indicazioni di mantenimento o di potenziamento della resilienza del pubblico e della sua capacità interpretativa nel situare e dare un senso comune, sostenibile agli eventi critici occorsi, creando spazi di memoria condivisa e collettiva.
E’ bene evidenziare che l’introduzione di questo concetto, debitamente operazionalizzato nei suoi principi pratici quali rilevanza dell’azione, fattibilità, adattabilità, flessibilità, coerenza del metodo di intervento prescelto, diventa necessaria e fondamentale quando si decide di proporre modelli di sicurezza operativi, che abbiamo come linee guida la prevenzione non solo di azioni terroristiche, quanto una risposta coerente e adeguata ai danni da esse causate, il contingency planning, la comunicazione istituzionale al pubblico, l’interoperability, la continuità dell’azione di governo, la continuità degli approvvigionamenti e del sistema infrastrutturale e la mitigazione in fase finale di ripristino.
In seguito alla considerazione, all’analisi e all’interpretazione di questi elementi lungo una scala temporale e spaziale è possibile produrre protocolli e schemi operativi di sicurezza, basati su un processo di modellizzazione coerente e resiliente rispetto agli indicatori e categorie vagliati.
Avremo così degli scenari astratti, ma fattibili e applicabili come base per predire, non in modalità quantitativa ma qualitativa, il peso delle possibili azioni critiche e l’attuazione di minacce con il loro relativo carico di danni; soprattutto avremo la possibilità di conoscere il grado di tenuta dei sistemi di risposta e di governo sotto stress o sotto attacco.
Avanzerò quindi quattro riflessioni, che impegneranno il futuro dell’applicabilità della resilienza in contesti di crisi o emergenza terroristica:
- provvedere alla riformulazione del concetto stesso di resilienza, sia in termini di sua definizione teorica e quindi non più o non solo come capacità o abilità di tornare allo stadio pre-crisi, quanto in termini di principio operativo, che abbia rilevanza e valenza nell’operatività dei protocolli di sicurezza e degli interventi da effettuare in caso di crisi o di pianificazione dell’emergenza;
- la classica questione affrontata dalla maggior parte degli studiosi internazionali è se resilienti si nasce o lo si diventi? Dalle analisi e dagli studi effettuati bisogna distinguere fra la resilienza individuale propria di certi singoli e tipica di atteggiamenti quasi innati, dalla resilienza istituzionale e organizzativa, che per sua stessa natura sistemica e funzionale si apprende e sulla quale ci sono ampi margini di intervento. Infatti nessuna organizzazione o agenzia di governo nasce “resiliente”, ma può diventarlo se azioni e interventi si focalizzano sull’implementazione di determinate caratteristiche del sistema stesso in oggetto e soprattutto sull’analisi delle vulnerabilità tipiche di quel sistema;
- la “resilienza”, in contesti istituzionali e operativi di gestione delle crisi e della stessa percezione del rischio da parte del pubblico o della comunità a rischio, diventa quindi “un processo sociale comunicativo e dinamico”, che permette di coadiuvare la coordinazione dei vari enti coinvolti, nel rispetto dei ruoli e delle competenze di ognuno, facilitando, dove necessario, forme di cambiamento e avanzamento strategico – operativo nella risposta ad una crisi. In particolare, un esempio di comunicazione mediatica resiliente si è avuta dopo gli attentati in Francia, quando domenica 11 Gennaio, i maggiori capi di Stato e governo hanno marciato insieme alla popolazione e ai civili, per riaffermare un’identità nazional-europea colpita e affondata sotto i colpi di un terrorismo, che secondo alcune analisi, risulta ancora distante, irreale, difficile da definire. I foreign fighters, i returnee e coloro che si sono votati alla causa del terrorismo islamico sono l’esempio storico (per parte avversa) di una grande capacità di resilienza e di adattamento al cambiamento: le trasformazioni delle identità e le modalità di reclutamento dimostrano un livello di flessibilità e adeguamento molto alti, difficili da concepire all’interno del quadro generale degli attuali protocolli di prevenzione e sicurezza;
- la resilienza diventa metodo di lavoro predittivo, considerando attentamente che per sua stessa natura non possiamo prevedere esattamente un attentato terroristico, ma possiamo conoscere il grado di resilienza delle organizzazioni e degli enti preposti alla gestione della crisi e delle emergenza generate. Inoltre, la resilienza a questi livelli può essere intesa come prevenzione in termini di preparazione ovvero in questo caso è possibile pensare alle necessarie azioni di formazione e aggiornamento, che dovrebbero interessare non solo il personale operativo di sicurezza e intervento, quanto anche organi e personale di governo. Infatti è importante che il personale preposto per la gestione di crisi ed eventi critici possa essere in grado di gestire tali situazioni, non solo da un punto di vista di resilienza psicologica quanto anche tecnico – operativo
In conclusione è bene enfatizzare il fatto che possiamo avere un ruolo e un intervento attivo nella lotta al terrorismo di qualsiasi matrice esso sia, islamica come in questi ultimi decenni o nazionalista come in quelli passati, tenendo ben presente che la resilienza utilizzata nei modi prima discussi è indispensabile per creare un framework, un contesto cognitivo e operativo condiviso da specifici gruppi professionali e non, che renda gestibile, comprensibile, spiegabile, giustificabile e sotto controllo, eventi che per la cultura nella quale vengono concepiti e per la brutalità del loro esercizio pratico stenteremmo a capire.