31 maggio 2011 – L’intensificazione delle attività ostili a RCW e nella città di Herat può essere letta anche con l’accresciuta presenza statunitense nell’area (un consolato USA è stato recentemente aperto ad Herat) e degli interessi iraniani che vertono sulla regione. Indicazioni in tal senso erano state raccolte e Herat nei mesi passati, sottolineando la possibilità di inasprimento del challenge USA – Iran nell’area di Herat.
Una corretta comprensione delle ragioni dell’attacco deve quindi essere collocata all’interno di una fitta trama di relazioni locali, per cui ora pare possibile un pericoloso scollamento tra il contingente militare italiano ed i poteri forti locali, ovvero Ismail Khan, che controlla il quartiere all’interno del quale è collocato il PRT, e che non è del tutto riconducibile alle posizioni del Presidente Karzai. La capacità delle autorità italiane di interloquire a ogni livello con questa leadership locale è sempre stata presentata come garanzia della sicurezza del compound all’interno della città: se oggi qualcosa ha smesso di funzionare perfettamente, ciò sarebbe particolarmente preoccupante. Ismail Khan, legato ad alcuni importanti progetti per lo sviluppo delle risorse energetiche della regione, con finanziamento indiano, potrebbe essere divenuto nel frattempo l’oggetto di attività ostili che vedono la cooperazione di Iran e Pakistan, che contestano il suo controllo della città e che vanno a colpire la presenza italiana come conseguenza.
Se poi siamo realmente in presenza di una minaccia proveniente dall’esterno, dobbiamo allora riconoscere l’insuccesso dell’Intelligence di ogni tipo (nazionale, militare, afghana) e delle azioni di prevenzione attuate dagli organi competenti (ISAF, Afghanistan Security Forces…). L’ipotesi di un coinvolgimento iraniano è certamente suggestiva ma concretamente possibile. E’ infatti un dato certo che la Repubblica Islamica dell’Iran, oltre a fornire supporto logistico agli insurgent afghani e campi per l’addestramento non lontani dal confine afghano, ha infiltrato operativi nella zona di Herat e fornito sistemi d’arma per almeno un attacco alla Base italiana di Camp Arena e all’allora futuro Consolato USA. La zona di confine poroso della RCW è infatti teatro di una guerra a bassa intensità che coinvolge l’esercito afghano, la Border Police, trafficanti di ogni risma e operativi iraniani che sovente si celano tra i retournees afghani che rientrano in patria.
30 maggio 2012 – Attacco al PRT di Herat, un luogo che conosciamo bene dove, negli ultimi 20 mesi il team dell’Università Cattolica ha passato circa 60 giorni di attività in collaborazione stretta con quegli uomini. Una ragione in più, questa, perché la notizia di oggi ci bruciasse addosso, riconoscendo nelle ringhiere e nelle scale a terra, nei muri crollati riflessi nelle prime immagini i luoghi di incontri di formazione e di ricostruzione dell’Afghanistan.
Nelle nostre missioni sempre risuonava la voce “prima o poi capita un attentato a Herat”… se ne parlava a metà strada tra l’esorcismo e la consapevolezza statistica che la normalità afghana non è quella della città, o non può durare. Ed è venuto il momento che si spiega
• con l’offensiva, ma che è tradizione, estiva;
• con la conferenza regionale/provinciale dei prossimi giorni;
• con la volontà di colpire chi per prima promuove normalizzazione nel Paese;
• con la necessità di dare un segnale forte – ricordiamo che sono state colpite le istituzioni che “governo” pacifico di Herat – su “chi comanda” e rilanciare l’incertezza.
Infatti, non è stata attaccata una pattuglia o una caserma, ma il Provincial Reconstruction Team italiano, che è dentro alla città, tra le case della città, nella vita degli afghani, dove noi a marzo insegnavamo come fare didattica a 30 maestri delle 70 scuole costruite dagli italiani. Dunque un attacco più difficile (non basta uno IED) e condotto con una certa complessità tecnica e strategia militare.
Ciò significa che stiamo andando sulla strada giusta e che dobbiamo continuare a percorrerla: costruendo scuole e maestri; centri per le donne e operatrici femminili; donne reporter che mostrano altre donne afghane.
Mi aspetto che questa offensiva possa continuare.
E se si tratta dell’ultimo “colpo di coda” dipende dalla risposta che noi, tutti, insieme, sappiamo dare: la transizione pacifica dell’Afghanistan è nostro interesse. Noi che dell’Università Cattolica che lavoriamo con il PRT continuiamo il nostro impegno.
Marco Lombardi