L’attacco a Barcellona ha innescato una serie di eventi (dalla Finlandia alla Russia) che richiedono una quantità di riflessioni che non si esauriranno rapidamente. Per esempio richiedono una valutazione l’effetto domino che si è generato; le modalità operative di un’apparente nuova forma organizzativa dell’attentato veicolare; le specifiche ragioni che coinvolgono la Spagna dopo tempo, con una quasi replica di Atocha2; quale sarà lo scenario del terrorismo post-Califfale. Ma altre riflessioni ancora si possono aggiungere.
Ma non sono le riflessioni che affronto in questa breve nota che, invece, si pone quasi come premessa metodologica ad esse per delineare la visione entro la quale svilupparle.
L’analisi del terrorismo è un’attività speculativa che cerca di dare ordine alla incertezza delle informazioni al fine specifico, per noi di ITSTIME, di favorire pratiche di contrasto alla minaccia. Il risultato è una interpretazione trasparente nel metodo, ma pur sempre un’interpretazione che necessariamente rimanda a dei “sottostanti” (i driver), a delle prospettive, a delle scelte,…. che devono essere esplicitate.
In questa logica di premessa metodologica “Barcellona e conseguenti” impatta su questi sottostanti interpretativi, quindi ri-orienta in parte le prospettive di analisi e le conseguenti scelte di contrasto: questa nota si sofferma su questi punti che vanno a delineare lo studio del futuro scenario.
Il primo punto riguarda il target “Spagna”, dopo tanto tempo, sempre in prossimità delle elezioni. Ma, non è questo il driver di sfondo. Piuttosto rimanda alla teoria diffusa che una delle ragioni della relativa sicurezza dell’Italia fosse il suo disimpegno nelle aree di conflitto: insomma non “boot on the field” come Francia, Gran Bretagna e partner europei vari colpiti perché, sosteneva la teoria, impegnati nei combattimenti. La Spagna sul campo non è presente eppure è stata colpita. A dimostrazione che questa teoria non regge: perché essa è solo una narrativa utilizzata da Daesh per giustificare, reclutare e promuovere i suoi attacchi ma non è un orientamento strategico del terrorismo islamista. Un indirizzo strategico che, nel contesto della comunicazione pubblica governata dal terrorismo stesso, sarebbe anche stato limitante rispetto alle possibilità create dalla propaganda massiccia di questi anni, che ha chiamato in campo lupi solitari e reti auto-organizzate più vicine alla spontaneità che alla pianificazione etero-diretta.
Il secondo punto riguarda il contesto di “guerra” nel quale ci troviamo: noi abbiamo più volte sostenuto che oggi si stia combattendo una guerra ibrida, di cui il terrorismo è uno dei giocatori. Dunque una guerra in cui si misurano interessi diversi, combattuta con regole non condivise e con strumenti che caratterizzano ciascun contendente. Della guerra “di una volta” resta la volontà di predominio reciproco tra i belligeranti: il potere di dominio è l’obiettivo del conflitto. Tutto il resto sono mezzi e strumenti per conseguire l’obiettivo: “i morti” sono uno strumento non l’obiettivo della guerra, le armi non sono gli strumenti che procurano morte ma gli strumenti che favoriscono il risultato cercato con il conflitto. La conferma dell’automobile come “arma di distruzione di massa”, la scelta di non impiegare armi tradizionali come i fucili mitragliatori e, addirittura, di ripetere la messa in scena delle false cinture esplosive non è un indicatore di incapacità o fallimento dell’organizzazione terroristica ma una scelta strategica: l’automobile e il coltello – la quotidianità che uccide in modo inatteso – fanno più paura del fucile – che uccide come ci si aspetta. L’obiettivo del terrorismo è la promozione del terrore, l’uccidere si iscrive in questa priorità e ne è strumento ma non fine. Il risultato “positivo” di Barcellona, per il terrorismo, non sono i trenta morti in più che avrebbe potuto avere con quattro kalashnikov ma le trecento barriere antisfondamento che ha avuto in diecine di città europee.
Dunque, l’attacco in Spagna evidenza due presupposti utili per comprendere i futuri scenari:
1 – la “minaccia paese” del rischio terrorismo non si misura rispetto al “coinvolgimento paese” nelle operazioni di conflitto sul campo;
2 – le armi della guerra ibrida non sono necessariamente quelle pensate per uccidere.
Questi due presupposti comportano delle conseguenze immediate:
1 – le ragioni per le quali l’Italia finora non è stata colpita non hanno a che fare con il suo disimpegno nelle aree di conflitto, se non nella misura marginale per il quale questo possa essere correlato alla attivazione di Foreign Figther;
2 – il contenimento degli attacchi, come quelli degli ultimi mesi, passa attraverso interventi che hanno un impatto nella nostra quotidianità perché finalizzati a ridurre le opportunità legate all’impiego offensivo di strumenti quotidiani.
Ma quei due presupposti orientano anche e soprattutto prospettive a più lungo termine.
In particolare aiutano a comprendere la forma evolutiva della minaccia di Daesh che, pur perdendo sul campo, si manifesta presente con forza, altro che colpi di coda di un animale morente: la reticolarità diffusa del terrorismo è una realtà che trascende il dominio su un territorio perché si affida alla sua capillarità fatta di singolarità (gruppi locali) che costituiscono i nodi della rete (il sistema del terrorismo). Il futuro di questa forma organizzativa è nella gestione della comunicazione che ha il compito di motivare, formare, orientare alla azione. Ma non di strutturare i comportamenti se questi riducono la varietà complessiva delle possibilità degli attacchi.
La comunicazione è un asset strategico particolarmente bene utilizzato dal terrorismo islamista: una comunicazione difficile da intercettare perché è soprattutto pubblica! E’ di questi giorni un certo clamore che suscita il racconto di Bjorn Stritzel, giornalista della Bild Zeitung, che per molti mesi si è finto disponibile ad arruolarsi per Daesh, intessendo lunghi dialoghi in rete per ottenere formazione e istruzioni a colpire. Non si tratta di un caso nuovo di finto reclutamento e, anche questo come i precedenti, non porta alcuna specifica informazione ma si conclude solo in un racconto mediaticamente appetibile. Perché? Perché quello che nelle chat private si racconta è quello che è già reso pubblico da riviste, video e volumi pubblicati e distribuiti da Daesh: a questo punto altro non è necessario dire, là dove la mano d’opera è disponibile e solo da movimentare per… noleggiare un’automobile.
La stessa novità organizzativa di “Barcellona”, un attentato multiplo condotto da un manipolo di persone, non è diversa dalla singolarità del “lupo solitario” per quanto riguarda gli indirizzi strategici che devono ricevere per attivarsi: si tratta in ogni caso di forme di auto-organizzazione rese possibili dal denso flusso coordinato della comunicazione del terrorismo.
Insomma, Barcellona smentisce alcune cose, ne conferma altre. Certo ri-orienta le analisi e i presupposti sopra dichiarati orienteranno le nostre per comprendere e combattere: un Daesh minaccioso seppur in evoluzione verso una forma diversa, sempre più orientato a forme di auto-organizzazione, che impiega la comunicazione soprattutto pubblica come driver principale, nel contesto della guerra ibrida, nella quale l’Italia è già coinvolta.