Le nuove ondate del terrorismo islamico, che tengono alta l’attenzione internazionale da più di due mesi sono una drammatica dimostrazione di come le organizzazioni criminali possano affinare sempre più mezzi, strumenti e modalità di comunicazione e reclutamento per commettere le loro attività terroristiche ed imporsi sullo scenario politico mondiale.Tutto questo è strettamente connesso a peculiari dinamiche di resilienza e capacità di organizzazione, che spesso vengono poco considerate.
Prendiamo il caso del rapper britannico Abdel-Majed Abdel Baryo, delle persone italiane convertite all’Islam, istruite, reclutate e poi partite o pronte per partire e portare a termine il loro compito, la loro missione in accordo al loro nuovo credo.
Non è forse una comunicazione di resilienza? Da quello che è dato sapere gli interessati sono per lo più persone convertite all’Islam ovvero hanno optato per un cambiamento personale e culturale di una intensità così forte da distorcere la loro immagine pubblica (come per il rapper) e alterare il corso delle loro vite (come per gli italiani convertiti).
Le stesse modalità comunicative si sono fatte via via più flessibile, più adattabili. Sono cambiati non tanto i contenuti quanto i mezzi comunicativi e le modalità di diffusione andando incontro alle esigenze di un pubblico non solo occidentale quanto “post moderno” e quindi labile, sfumato, vago, che chiede anche nell’emergenza e nelle informazioni tragiche, comunicazioni veloci, scarne, fruibili mediante “video ad impatto e con suspense”, perché si sa, le immagini valgono più di qualsiasi parola.
Questo fatto però ci parla anche di alcune dimensioni nascoste, di una commistione fra atteggiamenti culturali, interessi personali e quelli economici: penso nessuno sia così ingenuo da credere che ciò che interessano queste svariate forme di terrorismo siano unicamente gli aspetti religiosi e sociali. Questi sono un lato della medaglia, l’altro è rappresentato da lotte di potere economico – politico, che in misura e con metodi diversi affliggono tutte le aree del mondo e servono per stabilire nuove alleanza, confini e fronti comuni.
I contenuti religiosi e quelli culturali rappresentano comunque una fonte inesauribile di interesse per tutti quei processi individuali e sociali, che possono essere sintetizzati con “costruzione dell’identità personale, sociale e religiosa”. Sarà comunque difficile poter apprendere di più circa le dinamiche e i meccanismi di funzionamento di questi fenomeni: da un lato per l’ovvia difficoltà nel poter reperire informazioni, dall’altro perché non centrali per la risposta alla questione terrorismo.
Le attuali forme di terrorismo possono quindi essere lette anche alla luce di una applicazione più o meno forzata dei concetti di resilienza e creatività: le modalità organizzative e personali delle reti terroristiche richiedono capacità di adattamento, flessibilità, velocità di interpretazione e valutazione delle azioni da compiere e una buona dose di creatività sia sul versante operativo sia su quello comunicativo.
Una diffusa tendenza culturale porta la maggior parte delle persone a concepire i concetti di resilienza e creatività come fattori unicamente “positivi”, in realtà come stiamo vedendo in questi ultimi anni e mesi essi sono anche espressione di forze di intelligence e strategiche, che nulla hanno a che fare con “la capacità di risollevarsi dopo un trauma” secondo una delle classiche teorizzazioni sulla resilienza.
La resilienza in questo ambito, anche se finalizzata a scopi disumani ha dimostrato il suo potenziale proattivo in termini organizzativi, comunicativi, operativi e di utilizzo delle risorse economiche e umane a disposizione.
E’ possibile quindi parlare di un “lato oscuro della resilienza”, di una capacità, di un fascino e di una seduzione che attraversano i confini del male culturale, della guerra religiosa, per approdare sulle sponde della politica internazionale e delle relazioni di potere in gioco nel mondo e nello scenario di crisi, che determinerà chi saranno i vincitori e chi i vinti, con la conseguente redistribuzione e allocazione delle risorse accumulate.
Ecco quindi che la resilienza e la creatività si legano fatalmente non alla capacità “positiva” di risposta ad un trauma, ma alla efficace e lucida gestione di una rete organizzativa con finalità e strategie ben precise: la capacità di adattarsi, sopravvivere, reinventarsi passa anche e soprattutto attraverso le nuove reclute, meglio come in questi ultimi casi, se straniere ovvero autoctone del Paese di reclutamento.
Questo fatto pone o dovrebbe porre una necessaria revisione di tutti gli studi sull’integrazione e sul multiculturalismo, perché anche in questo caso abbiamo assisto ad un capovolgimento dell’ordine culturale al quale eravamo abituati, dove i cattivi erano gli “stranieri, loro” e dove i “buoni” eravamo “noi”.
Gli scenari che si aprono sia dal punto di vista teorico sia pratico sono i più vari e data la complessità e la potenza delle forze in gioco, è difficile poter stabilire con precisione una linea di demarcazione fra fenomeni fra loro sempre più interrelati e connessi.