Il terrorismo è una strategia tipicamente cognitiva e l’attacco dell’11 settembre 2001 potremmo (ancora) definirlo un (media) event cognitivo- globale il cui obiettivo di base era ottenere, attraverso i media, il massimo risultato con uno sforzo relativamente basso all’interno della sfera pubblica.
Ai tempi dell’assassinio di Aldo Moro in Italia, il teorico della comunicazione Marshall McLuhan suggerì che il miglior modo per ridurre la violenza terroristica in quel momento fosse “staccare la spina”, ovvero non permettere ai media di narrare gli eventi in corso, eliminando così le motivazioni basilari dei terroristi (la conquista dello spazio mediale, in primis).
Se ben ricordiamo, pochissime persone hanno assistito allo schianto del primo aereo e all’incendio della prima Torre, l’11 settembre 2001. Un cine-operatore stava filmando l’edificio in quel preciso momento, con una inquadratura quasi perfetta. Quella ripresa fu resa pubblica pochi giorni dopo dall’attentato, ma fu il secondo attacco invece ad essere visto in diretta da milioni di persone.
Questo perché le telecamere della CNN e di altre televisioni erano già puntate sul primo edificio in fiamme.
Molto probabilmente l’intervallo di circa 18 minuti tra il primo e il secondo attacco fu pianificato dagli attentatori proprio per permettere agli operatori dell’informazione di prepararsi.
L’intera “performance” costituisce il più grande caso di riconoscimento collettivo della storia. “Riconoscere”, significa conoscere una seconda volta, “toccare” due volte lo stesso evento. In questo senso il “riconoscimento” era l’obiettivo del doppio attacco a telecamere accese.
Questo elemento è particolarmente importante in quanto ciò che al momento degli attacchi venne riconosciuto non fu un’incidente, ma un’azione violenta deliberatamente perpetrata da esseri umani con lo scopo di distruggere. Molto probabilmente l’effetto riconoscimento non è ancora finito ventuno anni dopo.
Il giorno 11 settembre ha assunto significati differenti da persona a persona, da paese e paese, da cultura a cultura ed è stato vissuto contemporaneamente da un numero di persone ma raggiunte prima nella storia dell’informazione. L’evento dell’attacco ha occupato e occupa tutt’ora tre spazi: quello fisico, quello cognitivo e quello mediale. Vive cioè nelle nostre città, nella nostra mente e nei flussi di comunicazione globale.
Durante il primo giorno del terrore miliardi di persone videro quel momento replicato più e più volte. Il replay istantaneo è la funzione di memoria a breve termine fornita dalla televisione alla coscienza collettiva.
I vecchi e i nuovi media non si limitano semplicemente a “trasportare l’informazione”: essi forniscono alle nostre strategie di costruzione cognitiva nuove estensioni.
È proprio grazie alla funzione di replay istantaneo che la televisione ha reso familiare l’evento sportivo o culturale o una dichiarazione di un Capo di Stato. Così è avvenuto anche per l’attentato alle Torri Gemelle. La ripetizione di scene inerenti le persone in fuga, l’incendio delle Torri, l’interventi dei soccorsi, ha offerto agli spettatori presenti e connessi elettronicamente la capacità/possibilità di elaborare (e rielaborare) davanti ai propri occhi e sugli schermi l’oggetto “spettacolare” dell’attenzione prima, e della memoria poi.
Quella strana sensazione di finzione hollywoodiana, riscontrabile oggi in ogni narrazione violenta e criminale proposta dai media tradizionali e digitali e spesso associata alla rappresentazione televisiva dell’attacco alle Torri Gemelle, è frutto dell’attenta eliminazione di immagini troppo violente da sopportare. In questi casi, in realtà, il peggio non viene quasi mai mostrato, ma rimane “gelosamente” custodito negli archivi dei media. Pensiamo alla guerra in Vietnam: quest’ultima finì perché gli Americani non sopportavano più la visione del conflitto in tv.
Quello che ci viene proposto dagli schermi, è una realtà “schermata”. Anche davanti all’evidenza più atroce, viviamo una sorta di realtà “aereografata”: i nostri eroi sul campo di battaglia combattono guerre “pulite”.
Ogni anno decine di report e analisi vengono pubblicati sulla presenza di violenza nei media e i loro effetti sul comportamento dell’audience, ma paradossalmente c’è molta più violenza nella vita reale durante una guerra o un attacco terroristico.
In questo senso la comunicazione di fronte alla guerra al terrorismo sembra aver assolto alla funzione di ristrutturazione cognitiva e pragmatica da parte degli individui, alla riduzione del senso di incertezza, ad un “massaggio mediale” tranquillizzante di fronte ad un evento tanto atroce quanto inatteso.
Molte persone hanno detto negli anni come “sia cambiato tutto” da quell’evento.
In realtà, tutto era già cambiato molto tempo prima, ma la maggior parte delle persone non aveva realizzato il cambiamento di prospettiva che la cronaca in diretta impone alle nostre coscienze. Quello che la tragedia dell’11/9 ha fatto notare a milioni di persone è che la proporzione assunta dai gravi eventi e dalle emergenze trasmesse nei media, mostrati in tempo reale, hanno modificato le percezioni nel tempo e nello spazio.
Se c’è ancora qualche dubbio che la “globalizzazione” non fosse solo un processo economico, ma anche un irreversibile cambiamento psicologico che riguarda tutti gli abitanti del pianeta, l’11 settembre lo ha rimosso definitivamente.