Dal Tibet allo Xinjiang
In questo gran frastuono mediatico sollevato dal caso tibetano, che ha conquistato dalle copertine dei tabloid ai monografici delle riviste di geopolitica, ogni tanto capita di sentir parlare dello Xinjiang: una regione a nord del Tibet, popolata da musulmani turcofoni (gli Uiguri), e ricca di risorse naturali. Anche lo Xinjiang, come il Tibet, è attraversato dalle istanze indipendentiste degli autoctoni, e anche lo Xinjiang è stretto dalla morsa di ferro della repressione cinese. Tuttavia tra i due casi esistono molte differenze.
Se paragonata all’epopea tibetana la vicenda degli Uiguri è relegata a una zona d’ombra. Per rendersene conto è sufficiente andare su alcuni siti internet significativi, e fare una facile ricerca digitando le parole chiave “Tibet” e “Xinjiang”. Ecco cosa appare:
CNN.com BBC.co.uk Youtube.com Technorati.com
“ Tibet ” 954 articoli 64 pagine 43700 video 3613 post
“ Xinjiang ” 439 articoli 7 pagine 1540 video 115 post
Nel sito CNN.com gli articoli che contengono la parola “Xinjiang” sono il 46% degli articoli che contengono la parola “Tibet”; nel sito BBC.co.uk compaiono 7 pagine di articoli che contengono la parola “Xinjiang”, e 67 pagine di articoli che contengono la parola “Tibet”; su Youtube.com i video sullo Xinjiang sono il 3,5% dei video sul Tibet, e infine tra i post dei blog tenuti in considerazione da Technorati.com, quelli che parlano del Xinjiang sono il 3,1% di quelli sul Tibet.
I numeri parlano da soli: il Tibet “fa più notizia”, la sua storia “coinvolge” di più, i suoi personaggi “piacciono” di più. E le cause di questo fenomeno sono molte, e non tutte banali: innanzitutto, gli Uiguri non hanno un apparato “mediatico” tanto forte quanto quello tibetano. Non solo la bandiera dello Xinjiang non viene sventolata da personaggi famosi durante i loro comizi pubblici (come Mia Farrow, Brad Pitt o Richard Gere), ma gli Uiguri non vantano nemmeno un leader carismatico tanto noto e abile nel calamitare simpatie, attenzioni e fondi. Non bisogna sottovalutare che il Dalai Lama, oltre ad essere la massima autorità temporale del Tibet, è anche la massima autorità spirituale della scuola buddista Gelupa. Gli Uiguri hanno avuto diversi leader nazionalisti (attualmente la più nota è Rebiya Kadeer), dei quali nessuno ha mai avuto una influenza paragonabile a quella del leader tibetano, né all’interno del paese, né all’estero. Inoltre, gli Uiguri sono musulmani: un credo che di questi tempi è molto meno simpatico del buddismo, entrato nelle grazie della civiltà occidentale già da molti anni. Basti pensare alle celebrità convertite, allo spiritualismo orientaleggiante ormai da tempo sull’onda del “cool” nelle metropoli occidentali, alle epopee cinematografiche, alle folle oceaniche (e ai prezzi da capogiro) dei raduni del Dalai Lama in tutto il mondo. Negli stessi luoghi in cui il buddismo viene in parte assimilato e integrato nella cultura occidentale (nelle sue dimensioni globali e locali), la religione musulmana continua a essere foriera di conflitto, sia nella politica interna che nella politica estera dei paesi occidentali. È proprio negli intricati equilibri della politica internazionale che la causa tibetana ha trovato una straordinaria forza di propulsione: blocchi alla fiaccola olimpica sono stati un potente attacco all’immagine, al brand “Cina”, che con le Olimpiadi cercava appunto di conquistare nuovo appeal. La Cina è una potenza in crescita che spaventa le economie del mondo intero, e soprattutto quelle dei paesi occidentali. Non è un caso che proprio in questi paesi abbiano avuto luogo le manifestazioni di protesta più eclatanti, che non hanno subito una repressione troppo dura né sono state caratterizzate sui media dalla retorica dell’ “inciviltà”, tipica delle situazioni in cui movimenti sociali cercano di bloccare o interrompere cerimonie ufficiali. La mediatizzazione delle proteste anticinesi, che hanno avuto come vessillo la bandiera tibetana, ha parzialmente contrastato la volontà cinese di operare con le Olimpiadi una gigantesca operazione di marketing, giocando a favore di coloro che tentano di ridimensionare l’avanzata cinese. In alcuni casi infine, anche gli equilibri politici interni di alcuni stati hanno giocato a favore della causa tibetana. Prendiamo ad esempio Parigi, dove l’8 aprile 2008 il sindaco Bertrand Delanoe ha esposto dal Municipio lo striscione “Parigi difende i diritti dell’uomo ovunque nel mondo” durante il passaggio della fiaccola olimpica, duramente contestata anche nelle strade. Una mossa che (non a caso) ha messo in difficoltà il presidente Nicolas Sarkozy, suo rivale politico, stretto nella morsa tra l’opinione pubblica e le autorità cinesi riguardo alla sua presenza o meno all’inaugurazione dei giochi di Beijing 2008. Grazie alle proteste anti-cinesi (o, se preferiamo, pro-Tibet) Delanoe ha sferrato un attacco politico contro Sarkozy, che probabilmente sfiderà alle prossime elezioni presidenziali francesi. Per concludere, l’affare Tibet ha avuto una tale risonanza mediatica non solo grazie alla composizione sociale e culturale del suo movimento di liberazione, ma anche a fattori esogeni, che difficilmente avrebbero innestato lo stesso circolo mediatico virtuoso anche per la causa Uigura. Così come le condizioni di politica interna e di politica estera dei paesi occidentali hanno favorito la mediatizzazione della questione tibetana, quelle stesse condizioni relegano lo Xinjiang nelle zone d’ombra del chiacchiericcio globale.
Il “Far West” della Cina
Xinjiang significa “nuova frontiera” in cinese: un nome considerato offensivo dai sostenitori dell’indipendenza, che preferiscono chiamare la loro terra “Turkestan Orientale” o “Uyghuristan”. Questa vasta regione (circa 1/6 della Cina) è spesso stata al centro di disordini e guerre durante la storia, e a tratti ha anche goduto dell’indipendenza (l’ultima volta tra il 1933 e il 1934). A causa di interessi geopolitici, oggi legati soprattutto alla produzione e al traffico di energia (è del febbraio 2008 la notizia della costruzione di un nuovo gasdotto dal Turkemenistan a Shanghai attraverso lo Xinjiang), la Repubblica Popolare Cinese stringe saldamente la regione fin dal 1949, attuando politiche di repressione culturale e religiosa, insieme ad una massiccia colonizzazione da parte degli Han, che siedono nei posti chiave per la gestione del potere. E a questo processo ha contribuito attivamente anche la War on Terror dell’amministrazione Bush: nell’agosto 2002 l’Ambasciata USA in Cina affermò, con grande plauso delle autorità cinesi, che l’ETIM (East Turkestan Islamic Movement) è affiliato ad Al-Qaeda. E così oggi, oltre ad essere definiti “separatisti” ed “estremisti”, gli Uiguri sono diventati anche “terroristi”, coniugando le “tre forze del male”, secondo la retorica del PCC.
Sebbene sui legami tra gli Uiguri e Al-Qaeda (e sulla loro reale entità) non sia mai stata fatta piena luce, e nonostante le azioni indipendentiste violente in Xinjiang siano praticamente scomparse fin dal 1997/98 (Millward, 2004), la Cina non ha mai smesso di gridare al “pericolo terrorismo”, soprattutto in questo periodo di preparazione delle Olimpiadi. Ecco alcune delle notizie dalla regione trapelate sui media internazionali a partire dall’inizio dello scorso anno:
- 8 gennaio 2007, uccisione di 18 e arresto di 17 persone durante quello che i cinesi hanno definito “attacco a una base terroristica”;
- 9 marzo 2008: i cinesi dichiarano di aver sventato il piano di dirottamento di un aereo tra Beijing e Urumqi (capitale dello Xinjiang), e di aver ucciso 2 miliziani e averne arrestati 15 il giorno 27 gennaio 2008;
- 10 aprile 2008, smantellati due gruppi terroristi, arresto di 45 persone, che secondo i cinesi “volevano rapire gli atleti”;
Queste sono tutte notizie che i cinesi si sono limitati a commentare, sbrigativamente, attraverso comunicati alle loro agenzie, dichiarando di essere sotto attacco di “terroristi islamici”, e di aver sventato piani e attacchi contro le Olimpiadi.
Patata bollente o asso nella manica? Il Grande Gioco continua…
Le Olimpiadi, come si poteva facilmente immaginare, da makeup per sponsorizzare un nuovo volto della Cina sull’arena internazionale, si sono trasformate in una vetrina per i movimenti interni di opposizione al regime. A questo processo stanno partecipando attivamente i media internazionali, da una parte attirati dagli scoop e dalla notiziabilità dei retroscena del gigante asiatico, dall’altra coperti alle spalle dal consenso delle istituzioni e dei gruppi di potere occidentali, interessati a ridimensionare il brand “Cina”. L’argomento principe, simbolo negli immaginari mediali occidentali della repressione cinese, è la causa tibetana. Se il Tibet è la vera patata bollente nelle mani di Hu Jintao, lo Xinjiang, pur avendo molte caratteristiche in comune con il Tibet, si è spesso rivelato l’asso nella manica del PCC: “vedete che sono violenti? Sono i terroristi islamici, li riconoscete?” ci dicono i cinesi, ammiccando esplicitamente alla War on Terror che da anni sta consumando Medio Oriente e Afghanistan.
In Asia Centrale il Grande Gioco continua, e la politica cinese sembra non essere cambiata da secoli a questa parte: lo Xinjiang, in quanto naturale passaggio per chi avesse voluto invadere l’Impero Cinese, è sempre stato vitale per la sua difesa, e ogni dinastia ha sempre fatto di tutto per tenere le mani su questa lontana provincia. Come riporta Terzani ne “La porta proibita”, i cinesi hanno ripetuto per secoli: «se lo Xinjiang è perso, la Mongolia è indifendibile, e con questo Beijing è vulnerabile» (1984: 69). E anche se tra i “diritti umani” esiste il “diritto di autodeterminazione dei popoli”, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, non è difficile affermare (con una buona dose di cinismo) che tale diritto viene reclamato (e reclamizzato) a gran voce solamente quando il suo rispetto è strumentale agli obiettivi che uno o più attori collettivi si propongono di raggiungere nell’arena internazionale. In questo contesto del nuovo Grande Gioco i media non sono solo un’arena di scontro, o uno specchio nel quale leggere i riflessi (più o meno distorti) di ciò che avviene in altri tavoli. I media sono anche un attore che si è imposto con prepotenza, e che i giocatori non possono più ignorare. È in questo frame che vanno lette le mosse di Washington, che da una parte appoggia gli esuli tibetani e uiguri, dando grande risonanza alle loro rivendicazioni, e dall’altra toglie la Cina dalla “lista nera” dei paesi che violano i diritti umani. Così come Beijing da una parte apre un dialogo con il Dalai Lama (contromossa mediatica alle proteste dei mesi passati, diretta al pubblico globale), e dall’altra cala la sua scure repressiva sul Tibet.
Infine, oltre alla modalità con cui alcuni temi vengono trattati, è significativa anche la loro presenza (o assenza) nell’agenda mediatica. Se tutti sanno dov’è Lhasa, Urumqi rimane un punto di domanda nelle mappe geografiche, a causa del blackout assoluto delle informazioni. Ed è anche questo un elemento che può suggerire da una parte l’importanza dello Xinjiang per Beijing, dall’altra il successo della morsa della Repubblica Popolare Cinese, dopo circa mezzo secolo di politiche repressive nella regione.
Riferimenti bibliografici
Millward, J. (2004), Violent Separatism in Xinjiang: A Critical Assessment, East-West Centre, Washington.
Terzani, T. (1984), La Porta Proibita, Longanesi, Milano.