Le informazioni aggiornate sulla situazione delle alluvioni in Pakistan di questa estate del 2010 sono le seguenti: 18,6 milioni di persone colpite, morti ufficiali 1,677, abitazioni distrutte o danneggiate 1,25 milioni.
Questa catastrofe è ancora una volta, l’occasione per riflettere circa quanto accaduto di peculiare nella gestione della crisi, in particolare quattro questioni.
La prima, fondamentale per chi è interessato all’area del crisis management, emerge dalle dichiarazioni avanzate dall’ambasciatore pachistano presso le Nazioni Unite, Abdullah Hussain Haroon, e i sospetti di due giorni prima dall’agenzia cattolica Fides: il flusso delle acque sembra essere stato canalizzato verso i villaggi poveri e cristiani, con lo scopo di salvare le terre dei latifondisti dalle devastanti inondazioni.
Nell’articolo si parla delle accuse circa la presunta deviazione o canalizzazione delle acque verso zone povere e per colpire popolazioni con differente fede religiosa.
Esterni alle implicazioni giuridiche e legali della vicenda, ma puntando l’attenzione alle pratiche di gestione delle crisi e al coinvolgimento della comunità vittima, se le accuse mosse fossero accertate, si aprirebbe un dibattito nell’area del crisis management sociologico, già avviato negli anni ’60, prevalentemente in U.S.A. circa la possibile correlazione fra variabili socio demografiche, come classe sociale di appartenenza, status, etnia, livello di istruzione, condizione economica e l’esposizione a rischi maggiori in caso di calamità naturali o anche man made.
Tale tesi non ha goduto dei favori di un’ampia maggioranza di sostenitori, in quanto le implicazione che in essa risiedono sono profondamente limitanti nella sua visione e applicazione globale.
I rimandi a dinamiche di pregiudizi e pratiche discriminatorie nei confronti di comunità presenti nella stessa zona geografica hanno posto tale pensiero ai margini, soprattutto pensando che in quel periodo storico si stavano combattendo in più parti del mondo battaglie per il riconoscimento dei diritti civili a tutte le persone, senza distinzione alcuna. In questi ultimi anni però, complici le catastrofi naturali occorse e caratterizzate da grandi conseguenze e la loro differente copertura da parte dei mezzi di comunicazione, si assiste ad un ripensamento circa questa possibile connessione. Ciò grazie anche al fatto che organizzazioni non governative e umanitarie in generale hanno fatto di questo tema, la loro principale argomentazione per lo sviluppo dei Paesi poveri.
Da un punto di vista personale ritengo che solo grazie a ricerche compiute di comune accordo e interesse fra differenti attori istituzionali e non, a differenti livelli possano restituirci una reale immagine di questo possibile nesso, che se così verificato comporterebbe implicazioni non solo metodologiche operative per la protezione della popolazione, ma anche di carattere etico e giuridico.
Agendo invece in modo differente e senza una profonda conoscenza della situazione e delle zone che sono state interessate da una catastrofe si correrebbe il rischio di innescare o alimentare pratiche discriminatorie e pregiudizievoli.
E’ noto invece che una calamità naturale abbia un differente impatto sulla popolazione e sulla tipologia di popolazione vittima, come viene riportato nell’articolo di Rebecca Conway per Reuters.
Si sottolinea in particolare la condizione delle donne, bambini, anziani, che universalmente sono fra i gruppi più vulnerabili in caso di catastrofe.
La seconda questione che si vuole evidenziare è la portata amplificatrice di vulnerabilità, dell’area di impatto e di crisi su un sistema dovuta all’assenza di:
- attività di zonizzazione, mappatura territoriale dei rischi ai quali l’area è esposta
- attività di pianificazione, progettazione, monitoraggio e allerta. Quest’ultima collegata direttamente con le peculiari attività di comunicazione del rischio che in questo caso non è stato abbastanza sufficiente ed efficace per l’evacuazione delle persone a rischio
- attività di prevenzione
Si parla in questo specifico di vulnerabilità strutturale, insita quindi nello stesso sistema esposto al rischio, che è possibile conoscere per lo meno in parte e ridurre in relazione ad una attenta analisi dei suoi componenti.
Le azioni che è possibile intraprendere sono direttamente collegate alla disponibilità istituzionale in termini di finanziamento e allocazioni di risorse umane.
Un’analisi superficiale della situazione interna al Pakistan sembra purtroppo limitare molto la portata di qualsiasi attività preventiva.
Lo scenario socio – politico è costantemente instabile, tormentato da conflitti fra minoranze religiose e non: date queste caratteristiche era prevedibile che un impatto di un agente naturale di queste dimensioni avrebbe portato la popolazione ad una situazione di emergenza e crisi di vaste proporzioni.
Le autorità internazionali che hanno avuto il compito del coordinamento degli aiuti e verso le quali sono state mosse critiche circa il ritardo negli aiuti stessi pongono l’attenzione sui numeri della popolazione, dell’area geografica colpita e delle dimensioni dell’agente naturale, come per esempio afferma Elisabeth Rasmusson – General Secretary, Norwegian Refugee Council and Paras Tamang, International Emergency and Conflict Team Advisor, ActionAid:
… This is really a mega crisis and I don’t think anybody understood at the beginning how bad it was going to get. There is clearly not enough capacity nor enough people and resources. But I think we have to take into consideration the magnitude of the crisis when we speak about the response to the crisis. Six million people are in need of humanitarian assistance – that is more than the entire population of Norway. We really have to speed up and scale up.
E’ vero è una mega crisis, non in questi termini forse.
Il vero dramma è che sembra che per ogni crisi e ogni migliaio di persone morte ci sia una qualche causa esterna profondamente inevitabile, contro la quale nulla si può tentare.
Per esempio non è possibile pensare ad una pianificazione che eviti il concentrarsi della popolazione in zone ad alto rischio alluvionale, sismico o altro?
Non è possibile prevedere sistemi di allerta di qualsiasi tipo?
E’ proprio in considerazione del fatto di essere consapevoli della magnitudo dell’evento che queste domande sorgono spontanee e una sopra tutte:
non era in nessun modo, anche solo approssimativamente possibile, prevedere per lo meno in minimi termini questa magnitudo?
Eppure alcuni fattori importanti per una compiuta analisi del rischio potenziale sono già stati elencati: densità della popolazione altissima, assenza di sistemi di allerta, assenza di attività preventive e mancanza di aiuti e risorse al momento dell’impatto, oltre all’instabile scenario sociale.
Il problema è che sono stati considerati dopo e non in fase preventiva.
La terza questione di questa catastrofe, ma comune anche a molte altre, è la mancata considerazione nelle attività di crisis management degli aspetti culturali caratteristici della popolazione vittima.
Sebbene in eventi critici come questi le priorità devono essere rappresentate dal soddisfacimento di bisogni primari come acqua, cibo, vestiti, i fattori culturali, anche in questo ambito rivestono un’importanza fondamentale e strategica soprattutto per l’organizzazione degli aiuti internazionali.
Come quanto riportato:
From his village in the southern Punjab district of Rajanpur, a holy man believed to be endowed with mystical powers (‘pir’) is frequently called upon to intone religious verses over containers of water – in the belief that this will purify them. His services are much in demand these days.
“We know water is causing sickness – but water over which words from the Holy Koran have been uttered cannot make us ill,” said Farkhanda Bibi, 65.
Le pratiche culturali quindi, legate alle credenze e a rituali specifici di una comunità, dovrebbero essere conosciuti ed esplicitati per una efficace gestione dell’emergenza, della fase di impatto e dell’immediato post – impatto.
La quarta questione è lo stridore causato dai tempi di gestione dell’emergenza, con quella che idealmente è o per lo meno dovrebbe essere la time line della gestione di una emergenza.
In particolare purtroppo è semplice assumere che fase di prevenzione, monitoraggio e allerta sono state sostanzialmente inesistenti.
La fase di gestione della crisi occorsa immediatamente dopo l’impatto è stata lasciata cadere in un tempo indefinito, durante il quale all’interno del Paese al già purtroppo usuale stato di guerriglia, si è andato sommando il caos generato da un’altra crisi con altre caratteristiche.
Allo stesso tempo l’attenzione internazionale ha temporeggiato circa l’invio di aiuto ed il sostegno alla popolazione, ciò da ricondurre principalmente alla tipologia del Paese e al suo assetto governativo.
In un quadro così delineato è assurdo anche solo cercare di immaginare la fase di ricostruzione, e poi quale ricostruzione, di che cosa?
Di quello che è stato distrutto dalle alluvioni o di quello di cui anche prima la popolazione era stata privata dal preesistente conflitto interno?
Infine non si può fare a meno di riportare i dubbi riguardanti le attività di reclutamento e speculazione circa gli aiuti forniti, da parte di gruppi islamici militanti: questa è la speculazione della catastrofe, è la parte criminale di persone che non si fermano e non si fermeranno davanti a nulla anzi, proseguono le loro attività terroristiche approfittando del caos e delle inevitabili zone di ombra generati da un’altra emergenza.
Un ultimo fenomeno comune anche ad altre catastrofi di questo secolo e di quello precedente, meritevole di attenzione, è la frequenza con la quale ogni volta che una catastrofe naturale si abbatte su una popolazione, ci sia una circolazione e una riproduzione di foto, immagini, video che sottolineano la condizione aberrante nella quale le vittime si trovano a vivere, o meglio a sopravvivere.
Come sta succedendo per le alluvioni in Pakistan: sulle principali testate di tutto il mondo è stato possibile leggere colonne, approfondimenti, numeri dedicati, che riguardano questa catastrofe naturale: forse lo scopo più profondo di tutto questo, o almeno si spera che sia così, è la mobilitazione delle coscienze a livello internazionale, della spinta alla solidarietà internazionale, tema sul quale si dibatte da parecchio tempo ed in modo multidisciplinare: ma ancora nessuno, nemmeno tra i più esperti è riuscito a definire la ragione profonda, che porta una persona ad agire in qualsiasi modo a beneficio di un’altra, distante geograficamente e diversa culturalmente. A questo proposito ognuno ha una propria piccola verità, alla quale si tiene stretto, nella speranza che essa sia la Verità, la vera verità.
E’ il lavoro dei mass media, dei mezzi di comunicazione in generale: interpretare e dare senso ad una realtà che spesso appare senza senso. Propongono una visione, dalla quale però non ci si dovrebbe sentire in obbligo di accondiscendere, ma di considerarla una delle tante possibilità per comprendere l’accaduto.
Prendiamo in considerazione il cambiamento negli ultimi anni sia delle tecnologie applicate alla comunicazione di massa, sia della domanda degli utenti e dei fruitori di questi servizi: la gente chiede di vedere, di scrutare in modo quasi imperturbabile che cosa sta accadendo in diretta, animata da uno spirito voyeuristico di sapore antico.
E’ un bisogno che soddisfa una esigenza ancestrale e anche probabilmente in parte creata dall’attuale società – quella che sempre più spesso viene definita dell’incertezza, dell’insicurezza – di sapere che qualche cosa di certo c’è, esiste concretamente ed è stato catturato in un attimo, in un preciso istante, fissato per sempre.
Cosa allora meglio di una foto?
Foto come quella sulla quale si discute in un articolo di Repubblica pubblicato il sette settembre, apparsa prima sul “The Guardian”: che fa discutere, che a prima vista fa dire: “come è possibile?” “come si è potuti arrivare a tanto?” e poi forse in qualche d’uno anche la domanda “che cosa posso fare?”
Domande come “si sarebbe potuto evitare?” nei riguardi di una catastrofe naturale sembrano ingenue o per lo meno prive di qualsiasi utilità: forse non il fenomeno nel suo verificarsi, ma nella sua prevedibilità in parte sì e le tecnologie lavorano per questo. Inoltre si potrebbero evitare conseguenze di questa portata, diminuendo la vulnerabilità tipica e specifica di un sistema sociale e della popolazione in generale che potrebbe esserne potenzialmente vittima, ma per questo occorrono risorse, occorre investire in una rete di attività che non sempre sono di grande attrattiva da parte delle autorità preposte per queste azioni, perché più spesso esse non hanno un immediato riscontro in termini di effettive ricadute, ma questo è noto: la prevenzione è un investimento, non un’attività redditizia.
Ciò che quindi si sarebbe potuto e dovuto fare, non solo per il Pakistan, ma per ogni singola catastrofe naturale che si è verificata in questi ultimi anni, dal livello locale di una comunità, fino all’internazionalizzazione delle pratiche, è un’attenta analisi delle zone a rischio, il loro monitoraggio, la messa in funzione di efficaci sistemi di allarme, la pianificazione e progettazione urbanistica adeguata alla zona territoriale e alle sue caratteristiche morfologiche e idrogeologiche, nonché socio demografiche.
Attività queste, possibili unicamente in relazione al sistema istituzionale, politico, sociale ed economico presente in quel Paese: queste per esempio le difficoltà emerse per il Pakistan, essendo esso una Repubblica islamica e uno dei Paesi più popolati al mondo, con una situazione politica interna caratterizzata da guerra civile e una reputazione internazionale, grazie al fatto di possedere ufficialmente armi nucleari, che ha messo in difficoltà gli aiuti internazionali, la loro distribuzione e ne ha rallentato il processo di avvio.
Dopo questa breve analisi è difficile cercare di giungere a delle conclusioni, forse perché non c’è nulla da concludere: si delineano nuove piste di ricerca che interessano il crisis management a carattere sociologico, come l’attenzione maggiore da rivolgere alla fase di prevenzione, l’importanza della cultura nel contesto degli aiuti internazionali, la necessaria conoscenza profonda degli assetti politici, economici, sociali del Paese colpito, e della loro influenza in termini di crisis practices, in modo tale da orientare la gestione della crisi lungo non solo l’asse temporale, ma nel rispetto delle caratteristiche del sistema colpito.
Tutto questo nella speranza che un giorno diminuisca la frequenza con la quale circolano foto, video, filmati, che riprendono bambini, uomini e donne in un momento privato di dolore estremo per il quale dovremmo avere un rispetto profondo, chinare la testa e fare un passo indietro.
Immagini di sofferenza che fanno il giro del mondo, per qualche tempo, nello scopo ultimo, almeno questo si spera, di sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si mobiliti e contribuisca agli aiuti.
Quindi la foto sembra essere la prova concreta che c’è bisogno di aiuto, come se senza quella prova, senza quell’evidenza, venti milioni di alluvionati non esisterebbero?
Sarebbe bastato un gesto, uno solo, che avrebbe suscitato meno clamore, che nessuno avrebbe probabilmente saputo o visto se non chi si trovava lì, o forse no, in quest’epoca si sarebbe potuto riprendere anche quello, un segno di rispetto e di comprensione per una sofferenza inacettabile: semplicemente scacciare le mosche posticipando la foto, che comunque data la condizione di quel bambino avrebbe suscitato ugualmente un moto di indignazione.