Indici, numeri, dati, proiezioni e previsioni. L’epidemiologia si nutre di matematica e statistica e cerca sempre gli indici più affidabili per “pesare” l’oggi e cercare di preconizzare il domani. Ogni malattia infettiva e diffusiva va osservata seguendo differenti parametri perché la fase preclinica (paziente già in contatto con virus o batterio ma asintomatico), la fase clinica (paziente con segni e sintomi), la fase di guarigione (ritorno alla normalità) hanno caratteristiche, durata e contagiosità differente.
Il SARS Co – V- 2 non fa eccezione e così la patologia che determina (COVID 19). Anzi oramai è chiaro che bisogna parlarne al plurale viste le molteplici varianti di fronte alle quali ci troviamo. Quali numeri e rapporti leggere e, soprattutto, come interpretarli? E’ una materia da “sanitari” esperti e, possibilmente, esperti non inclini all’ideologia di parte.
Come affrontare il contagio? Anche questa è una materia da esperti e, in questo caso, non solo medici ma anche economisti, sociologi e, soprattutto, politici. E’ oramai chiaro che la patologia va affrontata con una terapia domiciliare e con una terapia ospedaliera (parte puramente da medici). Molto potranno fare i vaccini se impiegati con lungimiranza e attenzione (qui i medici devono solo dare schedule vaccinali e tempistiche ma gli orientamenti sono politici). Importanti, se ben pensati, l’isolamento e il contenimento (metodiche politiche e “sociali”).
Che fosse importante isolare le persone che – anche se sane – provenivano da lontano era noto in tutte le città di mare. Era quasi la regola che il ritorno delle imbarcazioni in porto, dopo lunghe navigazioni in terre lontane, si traduceva nella comparsa – dopo una latenza di qualche giorno o settimana – di febbri, pruriti, petecchie, tossi, diarree “diverse” da quelle conosciute. La repubblica dei dogi pensò che la cosa migliore fosse tenere gli equipaggi in un posto sicuro ma senza alcun contatto con nessuno per “na quarantena de zorni”; da qui la “quarantena” pensata – fatto non banale – in un’epoca in cui si misconosceva l’esistenza di microorganismi e si riteneva che le patologie fossero dovute a uno squilibrio di umori o a effluvi corrotti.
Il termine quarantena è diventato un precetto medico che si riferisce all’atto (tenere isolato dagli altri) e non alla durata (variabile da patologia a patologia). Da questo poi si è giunto alle serrate, agli isolamenti ai lock down. Come tutte i rimedi medici anche la quarantena (variamente declinata) necessita di essere individualizzata e calata nel contesto in cui viene impiegata.
E’ una soluzione semplice (direi semplicistica) quella di chiudere tutto e rinchiudere le persone a casa; possibile se non esiste altro e se si vuole dare la misura della propria ignoranza (non conoscenza) del problema. Per essere, invece, un vero presidio dev’essere calata nella realtà e diventare puntuale e chirurgica.
La diffusione e il contagio di un microrganismo, anche se avviene per via aerogena, non può essere la medesima in un ambiente rurale, in una parte della città ove ci sono solo ville con giardino o, nella stessa città, dove ci sono grattacieli e condomini. Le passeggiate lungo i sentieri di montagna non possono essere parificate con quelle lungo il corso “dello struscio” della grande città.
Per un abitante di una città sapere che in altro quartiere vi è un evento epidemico non costituisce un grande problema; cambia strada – se del caso – ed è sicuro. Se invece l’evento colpisce il quartiere in cui abita deve sicuramente prendere maggiori preoccupazioni. Se l’evento si verifica nella via dove risiede dovrà avere la massima attenzione. Se avviene nello stesso condominio dove risiede si ritirerà nel proprio appartamento senza che alcuno glielo dica.
Credo sia questo il punto focale: bisogna creare un isolamento che sia agito e non subito. Le persone che si trovano in questa condizione devono avvertire che devono permanere nella loro “area sicura” e non nella loro prigione. Si obietterà che si possa ragionare così solo avendo un chiaro quadro di tracciamento e che sia, invece, pura utopia in una situazione di contagio diffuso. Difficile asserire il contrario ma, dopo la prima fase di reale disorientamento, si sarebbe dovuto cercare di gestire e non di subire il fenomeno.
Si sarebbero dovuto e si potrebbero ancora realizzare delle squadre mobili con molteplici competenze che, una volta identificata la zona critica (definibile da un numero di pazienti per zona residenziale) vi si rechino e la prendano in carico. Si isola la strada o la porzione del quartiere; il personale sanitario entra casa per casa per raccogliere la storia clinica, visitare, sottoporre a tampone, dare indicazioni. Il personale veterinario procede alla sanificazione degli spazi comuni (le scale del condominio, gli androni, etc). Il personale di supporto provvede alle esigenze “logistiche” (acquisti necessari, presa in carico degli anziani per assicurare la loro autonomia e sicurezza). In una cornice simile nessuno vorrebbe uscire di casa sapendo che quello è il luogo sicuro ed è al proprio domicilio dove riceverà le cure, le attenzioni (a meno di casi che necessitino di reale ospedalizzazione) e il supporto.
Mi ripeto: abbiamo fatto vincere il virus delegando agli ospedali la gestione della pandemia invece che potenziando la medicina del e sul territorio. Avremmo dovuto superare la mentalità mercantile e utilitaristica che vede la città come una costruzione urbanistica e sociale di terziario e di servizi invece che un luogo ove il bambino gioca, il giovane studia, l’adulto lavora e l’anziano testimonia la tradizione. Avremmo dovuto chiamare i cittadini alle armi contro il virus trattandoli da uomini e donne libere, invece di pensarli come consumatori da limitare e controllare.
Si sarebbero potuto impiegare le forze di sicurezza (compresi i relativi droni) per assicurare movimenti di merci e di persone sicuri e alla luce del sole. Il lavoratore comunicava alle forze di polizia il luogo di partenza e di arrivo delle merci, chiarendo dove gli autisti si sarebbero fermati e avrebbero mangiato e dormito. Le fabbriche avrebbero lavorato, come le scuole avrebbero insegnato, con orari di entrata e uscita diversificati, utilizzando sedici ore della giornata e non solo otto o cinque. Avrebbe rotto consuetudini e routine, avrebbe fatto impazzire sindacati e partiti di mentalità anelastica. Avrebbe restituito l’umanità a una società che ha confuso la felicità con la sazietà e che rischia di pensare che sopravvivere sia vivere e che mendicare sia uguale al produrre.
Bisogna che il percepito si coniughi con la necessità; l’isolamento sarebbe una scelta quasi autoimposta (si pensi alle zone rosse di Codogno e Vo che vennero rispettate senza un fiato da parte di tutti i residenti). Mentre in alcuni luoghi del quartiere si combatte e si resiste nel resto della città si continua a vivere (con la dovuta attenzione) e, se e quando, altra parte della città dovesse necessitare di isolamento, questa lo accetterà perché consapevole del rischio ed emula dell’esempio dei concittadini. La città rimarrebbe un luogo unito pur nelle differenze: una parte lavora e vive, una parte rimane a casa per ripararsi e salvare gli altri. Città che ancora continuerebbero a essere luoghi umani e abitati, ove ancora nasce la fiaba, si inventano giochi e la vita non è un mero algoritmo.