Quando finisce una pandemia? Difficile dirlo e lo studio della storia non ci aiuta. Il medico può dirlo solo a posteriori quando – dopo un periodo statisticamente significativo consta che i numeri sono costantemente al di sotto dei parametri di riferimento – è in grado di affermare che “a far data da …”. Il sociologo, invece, potrà acclarare che la pandemia è finita, a prescindere dagli indicatori sanitari, quando coglierà un atteggiamento sociale non più condizionato dalla paura o dalla realtà pandemica.
Al momento, pur in un quadro in miglioramento, si può sostenere che permane uno stato di pandemia in Italia confortato sia dai dati sanitari sia dalla percezione sociale. Molto più difficile da sostenere, in ambedue i versanti, è lo stato di “emergenza”. Solo il livello politico (e quello tecnico collegato) sostiene che l’emergenza è ancora in atto ma questo asserto oltre a non essere corroborato da dati sanitari e scientifici finisce per diventare un indicatore o di superficialità o di furbizia.
L’emergenza l’Italia e il Mondo intero l’ha vissuta veramente nel momento in cui il virus ha colpito in modo inesorabile e, a prima vista, incontenibile. Non era chiaro quali provvedimenti prendere e come affrontare la situazione, sia medica che sociale, perché il nemico oltre a essere invisibile risultava imprevedibile.
Oggi, invece, sappiamo molto e imputare al virus il sovraffollamento degli ospedali o la mancanza di presidi sanitari è ipocrita. L’emergenza esiste perché non abbiamo approntato un piano adeguato e messo in campo le contromisure adeguate e nel momento adeguato. Abbiamo atteso settembre prima di prendere i dovuti provvedimenti sulla riapertura delle scuole e delle fabbriche. Abbiamo atteso che si riempissero le rianimazioni prima di prendere provvedimenti verso anziani e persone con disabilità (che sappiamo essere le categorie più soggette a sviluppare una malattia più severa).
Anche la politica vaccinale sembra favorire questa cultura dell’emergenza costante. Non c’è dubbio che la prima categoria da vaccinare fosse quella sanitaria dedita alla cura dei pazienti COVID e, subito dopo, di quella non COVID. Per inciso il personale sanitario delle Direzioni generali e di chi non svolge attività clinica in generale non avrebbe dovuto ricadere in questo novero. L’avere una laurea in medicina e chirurgia o in scienze sanitarie non costituisce di per sé un fattore di rischio; solo l’attività svolta fa rientrare o meno il personale in questo novero.
Sicuramente discutibile la scelta di aver valutato quale necessità primaria di vaccinare gli anziani residenti nelle Case di riposo (RSA). E’ comprensibile l’ansia di evitare (ma sarebbe deleterio cancellare) “brutte” pagine di cronaca piuttosto recente ma questa a chi scrive non sembra la soluzione. Gli anziani istituzionalizzati devono essere protetti in quanto isolati e non in quanto vaccinati. Isolati perché viene consentito loro di vivere in un ambito protetto dall’esterno grazie alla vaccinazione e alla vigilanza del personale con cui vengono in contatto, grazie alla possibilità di vedere i propri famigliari in un ambiente sicuro (giardino, stanze separate con vetrata divisoria et similia). Vaccinare persone che poi vivono in un ambiente chiuso significa semplicemente denunciare la propria incapacità a proteggerlo.
Pensiamo per un attimo se si fosse pensato di “isolare” gli anziani lasciando nei propri appartamenti (qualora di dimensioni adeguati) fornendo loro servizi di consegna a domicilio, dedicando loro parchi ove poter passeggiare in sicurezza, indicando loro fasce protette per andare nei negozi. Per gli anziani, invece, che vivono in mini appartamenti si sarebbe potuto dedicare alberghi con giardino e con stanze adeguate per la socializzazione tra “pari”. Condizione d’ingresso: due tamponi negativi a distanza di quattro giorni. Il personale di queste strutture avrebbe dovuto evitare il contatto diretto con questi “ospiti” per garantire loro l’isolamento. Invece che avere alberghi per persone positive al COVID avremmo avuto alberghi per persone che non avrebbero dovuto diventarne positivi.
A questo punto si sarebbe potuto vaccinare la popolazione tra i venti e i sessantacinque anni consentendo la ripresa dello studio e del lavoro. In sicurezza. Vaccinare i cassieri dei supermercati, le direttrici delle banche, i professori, gli autisti dei mezzi pubblici. Questo avrebbe consentito alla società di ripartire speditamente salvando l’economia e preservando le categorie a rischio.
Si dirà che questo modo di pensare cade nel rischio di creare una ghettizzazione. Accusa non del tutto infondata e che non può essere liquidata con un’alzata di spalle. Si sarebbe dovuto trovare la giusta comunicazione (sarebbe bastato un decimo dell’impegno profuso per costruire il carosello sui trasporti su gomma e sulle prime vaccinazioni) e dire che ai giovani si chiedeva di combattere con il proprio impegno quotidiano contro il virus studiando e lavorando (indossando l’arma del vaccino) e agli anziani di mantenere in vita la memoria (proteggendosi dal nemico).
Il sacrificio sarebbe stata una Pasqua (se si fosse ragionato per tempo anche un Natale) senza contatti famigliari pensando invece a una celebrazione “del riabbraccio” da tenere a giugno o a settembre (seguendo dati epidemiologici e sanitari certi) aprendo i parchi dove finalmente gli anziani avrebbero potuto riabbracciare i nipoti. I giovani avrebbero raccontato del lavoro e dello studio, gli anziani di come si vive in una “montagna incantata”; un abbraccio generazionale tra chi è stata al fronte e chi ha conservato il focolare acceso. Gli alberi e la natura avrebbero respirato la commozione e l’emozione. Giovani vaccinati e anziani protetti. Nessuna emergenza;solo capacità di gestire il nuovo “nemico”.