A sentire i commenti alla televisione e a leggere le notizie dai giornali (parlo quindi di quelli che sono professionisti dell’informazione e che, per questo, devono essere ascoltati) si ha l’impressione che dobbiamo ripensare a tutto perché il SARS- Co- V- 2 ci obbliga a scelte totalmente nuove.
Fino agli anni Cinquanta gli ospedali venivano costruiti a padiglioni. In definitiva in un ampio spazio sorgevano diversi edifici, comunicanti per il tramite di viali, immersi tra prati alberati. Ognuno di questi edifici era dedicato a un particolare tipo di paziente definito, crudo ma realistico, dalla patologia che lo aveva portato al ricovero. Un’eventuale emergenza imponeva (e impone tuttora in questi ospedali ancora in funzione) una corsa da un padiglione all’altro mentre un trasferimento di paziente richiede inevitabilmente il movimento di un’autoambulanza.
Questa scelta architettonica venne superata negli anni Sessanta tramite la costruzione dei monoblocchi ovvero di strutture che si sviluppavano in verticale dedicando piani, invece che edifici differenti, alle diverse patologie. Questo rende più semplice gestire le urgenze: basta un ascensore dedicato e il medico d’emergenza o il rianimatore può raggiungere il paziente che necessita della sua opera in ogni reparto. L’eventuale trasferimento del paziente avviene tramite un percorso interno senza utilizzo di autoveicoli.
In definitiva la modernità ha guardato alla gestione delle emergenze e ha strutturato l’ospedale come un’unica struttura autosufficiente che accoglie il malato dall’esterno, lo sottopone ad accertamenti diagnostici e laboratoristici, lo tratta con interventi chirurgici e medici, gli garantisce la degenza e lo restituisce all’esterno guarito.
La visione dell’Ospedale a padiglioni, invece isolava un paziente dall’altro; uno perché non contagiasse l’altro perché non venisse contagiato. Il malato affetto da morbo contagioso e diffusivo veniva tenuto in un edificio perché non infettasse chi ne stava al di fuori. La puerpera e la gestante venivano ricoverate in un altro padiglione per essere protette da un eventuale contagio.
Vi erano poi isolamenti che diventavano anche terapeutici. I pazienti affetti da tubercolosi venivano confinati nei sanatori in alta montagna (elioterapia) così come i pneumopatici venivano trattati presso strutture marittime (salassoterapia).
L’isolamento esiste anche in altre strutture e con la medesima doppia valenza: di proteggere e di impedire che a qualcuno venga arrecato danno. In isolamento si pone il detenuto che dev’essere osservato perché potrebbe avere atteggiamenti lesivi contro di sé (isolamento con osservazione) e si pone in isolamento chi esercita atteggiamenti lesivi verso gli altri (isolamento punitivo). L’isolamento è poi un modo per sottolineare l’efferatezza di crimini particolarmente odiosi per il vivere civile e, per ironia della sorte, in tempi di pandemia quelli sono i detenuti più protetti.
Nelle letture infantili (Salgari in primis) abbiamo imparato il significato della bandiera gialla; il galeone segnalava “peste a borso” e il nattante rimaneva al largo non potendo attraccare alla riva per non seminare il morbo. Era una misura di buon senso, di protezione e volta a preservare la salute della comunità.
Non solo le strutture ma anche il vivere sociale ammetteva l’isolamento, anche per fini educativi. Non occorre essere nato ai tempi di De Amicis per ricordare che già durante la scuola elementare la maestra poneva in isolamento chi con il proprio comportamento impediva un regolare svolgimento della lezione (“Esci dalla classe!” Oppure “rimani dietro la lavagna”). In isolamento, al liceo, venivamo posti durante gli esami scritti e, soprattutto, durante le prime prove della maturità (meraviglioso esempio di distanziamento sociale).
In realtà il SARS-Co-V-2 ci obbliga a ritornare al pensiero pratico, vorrei dire di buon senso. Siamo obbligati a scoprire l’umanità dell’agire nell’azione come della preservazione. Dobbiamo tornare ad accettare i ritmi della vita che ci vuole far svezzare nei nidi costruiti nei luoghi appartati per poi crescere pronti a solcare i mari, i cieli e le terre.
Se guardiamo a quanti anni sono passati tra un’epidemia e l’altra (intendendo anche quelle che si sono arrestate prima che diventassero un flagello mondiale) ci rendiamo conto che i tempi intercorrenti si sono ristretti e che la prossima avverrà in meno di dieci anni. Fino a trent’anni fa un’epidemia di una remota regione cinese sarebbe rimasto un fatto localistico e non si sarebbe diffuso al di fuori di uno spazio confinato da un fiume o da una montagna o da una vasta pianura. Oggi non è più così; lo sappiamo e dobbiamo fare i conti con un mondo senza barriere e frontiere. Non possiamo tornare all’Arcadia ma, proprio per questo, dobbiamo avere un sistema di riconoscimento e di identificazione rapido e misure protettive efficaci, rapidi e che non siano inficiate dal politicamente corretto.
Non è una società inclusiva quella che si apre a tutto e a tutti senza considerare il vivere sociale. In una società rispettosa del vivere comune in situazioni di epidemia isolare significa non soltanto impedire il contagio ma anche preservare il debole, l’indifeso e il sofferente.