Due pesi e due misure: la qualità di un intervento operativo efficace si scontra con la non-qualità della pratica politica successiva.
A conferma che la gestione di una missione ha problemi…dopo. A distanza di qualche giorno faccio il punto su alcuni aspetti della liberazione di Silvia Romano.
Ci tengo a distinguere, come ho fatto fin dall’inizio, tra il piano operativo della missione e il piano politico e comunicativo: si tratta di due piani che devono essere tenuti separati per comprendere senza essere di parte.
Sulla questione operativa ho già scritto: si è trattato di un’azione lunga e complessa, molto apprezzata anche dai partner che hanno partecipato in Somalia. Alle agenzie italiane era stato dato il mandato di “liberare Silvia” e a quel mandato si è risposto. Le argomentazioni che riguardano le alleanze sul campo, i compiti dei singoli attori e i costi della missione, fondate su informazioni corrette e problematiche comprensibili, tuttavia sbagliano perché mettono insieme il piano politico e operativo. Sul campo si utilizzano e sfruttano le opportunità che lo scenario in cui si gioca offre per “chiudere”: i somali che sono padroni di una casa ostile; i turchi senza i quali nulla si muove in Somalia e che sono operativi sul territorio; i qatarini alleati e finanziatori storici. Questo solo poteva contare per praticare quel campo: questi sono stati gli alleati di una missione altrimenti impossibile, che si valuta su quel terreno, con quelle opzioni.
Il presupposto alla missione è evidentemente politico e le conseguenze sono egualmente politiche.
Tralasciando pertanto un comento alla missione, mi soffermo sulle conseguenze politiche degli aspetti comunicativi della missione.
A cominciare dalla liberazione: dove crolla l’asino: quando il circuito mediatico, parte integrante e determinante le strategie della guerra ibrida, diventa protagonista assoluto.
Primo atto: liberazione e arrivo.
Se fino ad allora il silenzio era stato rispettato, anche dai partner somali messi più di una volta sotto pressione dall’interventismo dei media italiani che chiedevano informazioni, la sceneggiata mediatica ha rovinato il successo italiano.
Ancora prima dell’arrivo un cinguettio privato di una figura istituzionale informa il pubblico e i membri del governo, così anche la famiglia. Invertendo perfettamente la catena comunicativa auspicata e opportuna, evitando ogni canale istituzionale e legittimo.
A seguire, ecco Silvia che scende dall’aereo nel suo abito verde che è stato subito rivendicato nelle chat islamiste di mezzo mondo come un grande successo dell’Islam, a cui si associa.
All’abito verde si aggiunge un distintivo con mezzaluna, ben visibile sul dispositivo di protezione indossato durante la liberazione. La questione fa immediatamente discutere: la fotografia è diffusa dalla agenzia turca Anadolu, che rinforza la tesi di una liberazione tutta turca a opera del Mit ma in Italia si parla di dotazione nazionale dell’antiproiettile ipotizzando un ritocco dell’immagine. Tuttavia, il distintivo riporta una scritta in alfabeto Orhon, l’antico turco, che si ritrova sulle patch delle forze speciali, spesso con legami all’ultra destra dei Lupi Grigi: in questo senso la tesi turca, che ha ritrovato riscontro sul campo, di un’operazione “loro” con conseguente passaggio di mano “a noi” ha maggior credito. Debolissima contro argomentazione italiana.
Il primo atto mostra immediatamente come il problema di un’azione operativa emerga sempre dopo la sua conclusione, con una comunicazione funzionale ad attribuire meriti o demeriti, paternità e protagonismo della missione. Una prima valutazione evidenzia una scelta politica di protagonismo mediatico che poteva essere evitata, con una comparsa rinviata, più che giustificata dalle condizioni dell’ex-ostaggio, dopo qualche giorno: le dichiarazioni di Silvia non potevano che essere che quelle che ha rilasciato, dopo 18 mesi di prigionia nella quale la strategia migliore è quella di un adattamento mimetico a una situazione interpretata come permanente. E’ stata una enorme leggerezza non tutelare l’esposizione mediatica del rientro, dando la possibilità a Silvia di una decompressione guidata all’arrivo nel nuovo contesto. Ed è stata strategicamente perdente non rendersi conto, o sottostimare, il valore simbolico che comunque avrebbe avuto la sua prossemica e il suo atteggiamento, ben oltre il circuito nazionale. La comunicazione istituzionale incompetente ha dimenticato che il terrorismo è comunicazione, senza pertanto preoccuparsi di gestire gli effetti mediatici al di fuori del circuito personale della politica nostrana.
Grave danno al Paese.
Intermezzo continuo: social media communication.
La liberazione di Silvia è l’occasione per il mondo social di svincolarsi dall’ormai ripetitiva narrazione del Covid-19: si tratta di una grande opportunità che trova come acceleratore la possibilità di focalizzarsi su un “nemico” diverso. E’ un dato che, dopo tante settimane di quarantena, la realtà relazionale dei social sia una valvola importante, anche utile, per contenere il conflitto sociale. L’arrivo di Silvia, con la sua sconsiderata gestione comunicativa, è servito sul piatto d’argento: anzi provoca. Come è natura dei social, il dibattito non serve a chiarire né a condividere analisi ma a rafforzare schieramenti, che hanno bisogno di riconoscersi anche nel processo sociale che genera sicurezza garantendo identità di gruppo. A questo gioco partecipano tutti, testimoniando il delicato periodo di irrequietezza conseguente la perdita delle relazioni reali. E’ l’orgia della fiction (si reclamano gli interventi delle truppe speciali); la manifestazione dell’incompetenza (portando a esempio i successi contro l’Anonima Sequestri); la stimolazione dell’invidia economica (contabilizzando i costi sempre inevitabilmente elevati di queste operazioni); il revival di vecchie inimicizie (le NGO inutili e incapaci). Le narrative sono tutte lontanissime da una realtà reale (che io per primo sto criticando!) ma funzionali perché finalmente non è il virus che conferma la pratica dei social media: anche di questo scenario la comunicazione istituzionale non ha tenuto conto. O se ne ha tenuto conto lo ha fatto considerando Silvia il bersaglio giusto per attivare un diversivo. Personalmente non penso che ci sia qualcuno, nelle istituzioni, così capace che possa averlo pensato e fatto.
Secondo atto, scena prima: parla al-Shabaab su Repubblica.
E’ il 12 maggio quando parlano al-Shabaab attraverso il quotidiano Repubblica, con una intervista ad Ali Mohamud Raage conosciuto come Ali Dhere portavoce del gruppo. Il giornale titola rinforzando una delle questioni topiche: il pagamento del riscatto e l’uso che i terroristi ne faranno: “I soldi del riscatto di Silvia per finanziare la jihad”. Benché il gruppo abbia perso capacità militare negli ultimi anni, resta pericoloso per la capacità di intelligence e per la presenza articolata in stile mafioso in diverse zone tribali del sud della Somalia dove ha negoziato accordi. I soldi del riscatto serviranno certamente a comprare armi ma soprattutto a comprare il consenso per consolidare l’organizzazione e promuovere la sua agenda anche infiltrando il tessuto socio-politico di Somalia e Kenya. L’intervista su Repubblica serve proprio a promuovere l’attitudine al governo di al Shabaab, il consenso di cui gode tra la popolazione, la preoccupazione che esso ha nell’amministrazione, per sottolineare che a loro “pare una definizione riduttiva per al Shabaab” di essere “etichettati come terroristi”. Si è trattata di una perfetta operazione di narrativa alternativa, alle quali già Daesh ci aveva abituato con Cantlie, che ha due obiettivi raggiunti: dare ragione al partito italiano che sostiene che i soldi serviranno a comprare armi per incrementare atti di terrorismo, così promuovendo il conflitto e la divisione in Italia; affermare Shabaab come un gruppo di governo, che controlla ampie fasce di territorio con il solo peccato di volere l’applicazione della legge islamica (Sharia), definito terrorista “chissà perché”. Questa intervista ha irritato molto il partner somalo: la pubblicità concessa a Shabaab è decodificata come una disattenzione grave lesiva degli interessi nazionali della Somalia, che riduce il successo operativo di cui si era localmente contornata l’operazione insieme agli italiani. Qualcuno potrebbe ritenere necessario avviare una strategia di emergenza per riparare il danno.
Secondo atto, scena seconda: parla al-Shabab via rete
Il giorno dopo la pubblicazione dell’intervista, il sito Somalimemo.net pubblica una smentita firmata al Shabaab che dichiara che nessuna dichiarazione è stata rilasciata dai loro uffici di informazione e che questo falso è di sostegno alle “politiche razziste in Italia che negli ultimi giorni hanno promosso attacchi verbali e minacce alla donna musulmana Aisha Romano, che ha annunciato di esserci convertita all’Islam e indossava il velo all’aeroporto di Roma”. Il sostegno al fake viene da diverse fonti, anche americane, che ricordano la morte del supposto portavoce Ali Dhere, avvenuta nel marzo 2014. In realtà la questione è tutt’altro che chiara: Ali Dhere, ferito il 10 gennaio 2014 a Birta Dheere in Somalia in seguito a un attacco della Kenya Defence Force, morirebbe due mesi dopo. Senonché il 14 agosto 2019 il Somali National Army sostiene di averlo ferito nel villaggio di Sham. Infine, informazioni odierne sostengono con certezza che egli sia ancora in vita e anche che l’intervista rilasciata, che rientra perfettamente nella linea di pensiero sostenuta in altre sue comunicazioni, potrebbe essere attribuita a un suo fidato. All’incertezza sulla esistenza in vita del portavoce si aggiunge anche la problematicità della fonte che ha lanciato la smentita: somalimemo.net non è una fonte ufficiale di Shabaab e, in passato, è già stata al centro di numerose controversie rispetto alla legittimità a lei riconosciuta dal gruppo a rilasciare dichiarazioni formali a suo nome.
Insomma, gli interpreti di questa seconda scena sono ontologicamente incerti e moltiplicano il dubbio generato dalla loro comunicazione: si tratta di un successo drammatico, che serve a rinforzare le tifoserie, a problematizzare – come se ce ne fosse bisogno – la competenza dei media italiani, rilanciando una narrativa che si frammente in una miriade di possibilità verosimili.
Conclusione ancora da recitare: la trama.
La vicenda della liberazione di Silvia Romano ha tanti aspetti in ombra, che non saranno mai chiariti fino in fondo e che, in un Paese in cui regnasse democratica fiducia tra le parti, non sarebbe probabilmente neppure necessario chiarire adesso. Dunque, sbagliando nuovamente le strategie comunicative ispirate a una pessima conoscenza del Paese, non possiamo che aspettarci un progressivo silenzio delle istituzioni politiche sulla vicenda, cercando di scapolarla grazie a emergenze più emergenti.
Provo io proporre degli appunti per la trama della conclusione.
La verità sul campo potrà raccontarla solo la diretta interessata, che si è trovata ad attraversare aree tribali dove, senza accordi non si passa, che è passata di mano più volte in una alternanza ripetuta banditi <> al Shabaab, cercando di sopravvivere mimetizzandosi socialmente.
La stessa questione del riscatto è poco chiara, non perché non sia stato pagato, ma tutto sommato per la somma non rilevante per il commercio organizzato da Shabaab: non pochissimi soldi, ma non tanti quanto il commercio del carbone e gli altri traffici garantiscono. In questa prospettiva, il riscatto potrebbe anche solo rappresentare l’aspetto visibile che ha permesso all’Italia di portare a casa l’ostaggio e, contemporaneamente, lo schermo a più sostanziosi accordi locali tra i partner dell’impresa, tra i quali l’Italia potrebbe figurare poco, già appagata dell’esfiltrazione. In fin dei conti altri partner hanno più interesse di noi ad avere controllo e tranquillità in quell’area. In tal senso leggo alcuni commenti da Mogadiscio che reputano poco comprensibile la richiesta di quel denaro come la vera ragione del sequestro: altro fa parte dell’accordo.
L’intervista che “c’è e non c’è” è un ulteriore esempio di narrativa alternativa di cui siamo vittime, che sfrutta il palcoscenico bellamente offerto, grazie alla naïveté dei nostri media e comunicatori. Intanto romba il silenzio sulla vicenda da parte dei diretti interessati: l’accusa di fake news non turba il quotidiano nazionale interessato, consapevole che il silenzio è una strategia utile quando si è sotto accusa. Taci il nemico ti ascolta.
L’intervista “che c’è” è un grande successo di legittimazione di un gruppo terroristico come islamista che cerca riconoscimento politico, offerto in nome della soddisfazione provinciale di qualcuno che vuole fare dispetto al vicino di banco. Si tratta di scranni.
L’intervista “che non c’è” non fa che rinforzare l’idea anti italiana di gente nemica dell’islam in genere e documenta l’irritazione di qualcuno dei partner della missione, costretto a intervenire nel dibattito pubblico per richiamarci all’attenzione e per ri-orientarlo aprendo un’altra possibilità di lettura.
Conclusione ancora da recitare: l’ordito.
La trama della conclusione ha la necessità di disporsi su un ordito che definisca i confini della scena. Probabilmente posso fare più ipotesi, tra le varie l’oro nero ha sempre un posto privilegiato.
L’apprezzamento dei partner per il risultato ottenuto insieme sul campo è stato dunque spazzato via dalle narrative del ritorno, valutate e analizzate da terroristi e governo locale con il risultato che i primi si ritrovano con un riconoscimento internazionale che si era accuratamente evitato di conferire e che, ovviamente, si intromette come variabile problematica nel dialogo tra l’Italia e Somalia. Perché siamo in un’area molto complessa, dove l’arcipelago di interessi è delicato e mette insieme tutti gli attori del rapimento in una vicenda petrolifera di enorme portata.
Dal 2011 è aperto un contenzioso alla Corte dell’Aja per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi in mare che vede a confronto Somalia e Kenya, avendo quest’ultimo occupato una superficie marina non sotto la sua giurisdizione ma sotto quella somala: la corte internazionale è orientata a dare ragione alla Somalia. Ma, le operazioni congiunte contro gli Shabaab tra Kenya e Somalia hanno da anni portato i kenioti a “proteggere” la regione di confine del Jubaland, che nel 2019 ha rieletto il proprio Presidente, non riconosciuto dalla Somalia ma dal Kenya, in un processo di autonomia della regione. Il disegno keniota è di garantire l’indipendenza del Jubaland per avere in concessione i giacimenti del contezioso all’Aja, perché con l’autonomia ricadrebbero nella giurisdizione di questo nuovo stato.
A oggi le cose sono ulteriormente complicate tra i partner del salvataggio di Silvia, perché i governi di Somalia e Turchia hanno un accordo per affidare lo sfruttamento di quei giacimenti contesi, e non solo, alla compagnia turca Turkish Petroleum Corporation, la medesima presente nel Mediterraneo, con i problemi aperti con Cipro, Grecia e anche Italia.
L’Italia con ENI è schierata con il Kenya nelle perforazioni africane, quindi data per perdente dal Governo somalo, fiducioso dei risultati alla Corte dell’Aja.
L’Italia ha cercato di riposizionarsi adesso, al volo, anche come partner turco e somalo nella vicenda della Romano, vicenda in cui il Kenya non si è dimostrato altrettanto collaborativo.
Una doppia posizione che avrebbe portato a una inevitabile successo?
Se vi pare che questo possa essere un ordito di quella trama, la narrativa diventa avvincente, il riscatto in denaro mortificante.