«Sappiamo di sicuro che avrà luogo prima o poi un attentato terroristico di grosse dimensioni in Occidente». Così si esprimeva sulle pagine dei quotidiani dello scorso 26 giugno il Ministro della Difesa Martino. Di questo attacco, dato per sicuro, «non sappiamo dove avverrà», quale sarà il bersaglio, «gli Stati Uniti? Oppure l’Europa? O forse proprio l’Italia», né «quale forma prenderà».
Ma il Ministro si aspetta «attentati di tipo batteriologico, che l’Occidente non è ancora ben preparato a fronteggiare». E ancora nelle pagine interne dei medesimi quotidiani, dedicate a Milano, si leggeva di un’inchiesta dell’opposizione comunale su alcune aziende a rischio collocate nella città di Milano: «Il problema non sono le aziende, non vogliamo creare allarmismi nella popolazione. Il problema è il fatto che chi abita nei pressi di queste industrie non sa assolutamente come comportarsi in caso di incidente». Due notizie interessanti per riflettere sul medesimo tema: la comunicazione del rischio, cioè di quelle questioni e situazioni che sono percepite come rischiose per i destinatari della comunicazione medesima, i cittadini. Emerge, in entrambi i casi, una sfacciata impreparazione nell’affrontare questo tipo di comunicazione che, sempre, è di tipo “strategico”, cioè finalizzata a ridurre la vulnerabilità del sistema senza innescare comportamenti dis-adattivi quali quelli che un allarme che non si è in grado di metabolizzare cognitivamente può generare. Cosa significa? Significa che la cultura occidentale degli ultimi cinquanta anni ha cercato in tutti modi di espellere il rischio quale carattere inevitabile della vita quotidiana, e insieme a esso si è disinteressata dell’incertezza che vi è associata, con il risultato di promuovere atteggiamenti per lo più incapaci di governare proprio le situazioni che “non sono sicure”. Al contrario, come confermano gli studi degli ultimi cinque anni sulla globalizzazione, oggi ci si trova ad affrontare un contesto in cui rischio e incertezza sono caratteri diffusi e pervasivi nelle attività di ogni giorno. L’utilità di “comunicare il rischio” sta nel fornire parametri cognitivi, capacità interpretative di situazioni nuove, allo scopo di provvedere strumenti per ricondurre alla normalità queste situazioni o, al contrario, di specificarle come eccezionali ma governabili. La tipologia di comunicazioni sopra citate, invece, non sortisce alcuno di questi effetti: anzi incrementano il livello di incertezza sottolineando l’impotenza di fronte all’evento e, dunque, incrementando la vulnerabilità complessiva del sistema sociale. Dichiarare di “non voler creare allarmismi” crea allarme; dichiararsi sicuri del manifestarsi di un evento disastroso di cui “ci sono troppe cose che non sappiamo” significa generare insicurezza. Il tempo presente richiede, dunque, estrema cautela e, soprattutto, nuove capacità e tecniche comunicative per diffondere efficacemente informazioni sulle situazioni di rischio, se l’obiettivo della comunicazione è rendere capaci il sistema sociale, le istituzioni e i cittadini a con-vivere con questi aspetti del nuovo mondo globale. Se, invece, l’obiettivo è altro, allora anche la comunicazione del rischio è, purtroppo, uno strumento che si impiega secondo logiche differenti… ma in questo caso sarebbe molto rischioso.
Marco Lombardi